La guerra colpisce tutti, ma in modo diverso e bisogna pensare diversamente al futuro

Quali scelte conseguenziali dobbiamo, quindi, fare? Proviamo a pensarci, premettendo che questa nota viene dalla lettura storica dei fatti locali, ma non è “vangelo”.

15 Mar 2022

di Silvano Trevisani

Non sono mai stato tanto grasso, nemmeno in tempo di guerra!”. La battuta del grande Totò che per sbaglio ha indossato gli abiti del voluminoso Aldo Fabrizi nel film “Totò Fabrizi e i giovani d’oggi”, spiegava limpidamente come in ogni conflitto, per quanto tragico, ci sia sempre chi ne approfitta per arricchirsi a danno degli altri. La guerra per sua natura esalta la conflittualità sempre latente nei rapporti umani, crea disparità, tra vincitori e vinti, tra vittime e carnefici, tra faccendieri e sprovveduti o, per usare un’altra metafora decurtisiana: tra uomini e “caporali”. Si sono fatte guerre per far arricchire industrie belliche e mercenari, e in passato vi erano territori che si giovavano dell’economia di guerra. Tra questi, bisogna ammetterlo per non tradire le verità storiche, c’era anche Taranto che, durante i preparativi o anche durante i conflitti, cresceva economicamente grazie alle risorse che piovevano su Arsenale e Cantieri, salvo poi dover subire devastanti bombardamenti dovuti proprio alla massiccia presenza militare.

Oggi, molti decenni dopo, le cose sono molto cambiate nella forma ma nella sostanza la guerra resta un forte elemento sperequativo, nel quale però non tutti ci perdono, o quanto meno: non tutti allo stesso modo. Oggi, ad esempio, al di là della tragedia abbattutasi sui popoli coinvolti direttamente, vere vittime in assoluto, ci perdono molto le famiglie e le imprese economiche che utilizzano le fonti energetiche, quelle che esportano sia produzioni alimentari di pregio (come il vino) che macchinari. Ci perde, in linea di massima, tutto il Paese, che aveva immaginato di rinascere col Pnrr dopo il biennio da incubo della pandemia e oggi deve rivedere i piani. Ma ci sono anche coloro che guadagnano: le imprese che commercializzano prodotti energetici, gli stati che li producono, ivi compresi gli Stati Uniti, le industrie che producono armamenti (che non di rado sono stati all’origine di tragici conflitti), gli eserciti mercenari, che sono numerosi e costosi, e che in alcuni casi, come in Siria, in Libia, in Africa, sono determinanti per le sorti delle guerre, ma anche le imprese che importano prodotti alimentari che, per effetto del conflitto, non possono più arrivare dai paesi belligeranti. E se consideriamo anche il Covid alla stregua di un conflitto, se non altro per la gravità delle conseguenze, dobbiamo ricordare come già tra i suoi effetti più gravi ci siano stati i rincari di molte materie prima, ma anche di prodotti tecnologici che fino al giorno prima si compravano a buon mercato e l’inflazione.

Oggi che ci svegliamo traumaticamente dopo due eventi così drammatici, e cominciamo a fare dolorosamente i conti con una realtà molto cambiata, con i rischi di un impoverimento generalizzato, con un avvenire meno sereno di ieri, quando già lamentavamo disagi e ritardi, dobbiamo cominciare a “riorganizzarci”

Noi non siamo certo sostenitori dell’autarchia, che oltre a essere ideologicamente pericolosa è economicamente impraticabile, laddove non è fortemente dannosa (pensiamo alle esportazioni) ma è evidente che il nostro modello di sviluppo va ripensato. L’esternalizzazione di tutte le produzioni industriali non ha giovato al Paese, ma solo agli imprenditori che hanno speculato sulla differenza del costo del lavoro. Aver abdicato al ruolo che pure svolgevamo nell’industria tecnologica, quando la Olivetti era industria leader, ci crea un danno enorme, oltre a obbligare i nostri cervelli a emigrare. Investire con tanta lentezza e tanti problemi nelle fonti rinnovabili, nonostante la scarsità di nostre fonti energetiche, ci ha esposto e ci esporrà sempre più ai capricci del mercato, alle speculazioni, ai conflitti. Ma soprattutto: il modello di globalizzazione ha mostrato il suo fallimento. La teoria del “Wandel durch Handel” ovvero “cambiare attraverso il commercio” è risultato fasulla anche quando sosteneva che il libero commercio alimenta la pace. Sappiamo ora che non è vero!

Quali scelte conseguenziali dobbiamo, quindi, fare? Proviamo a pensarci, premettendo che questa nota viene dalla lettura storica dei fatti locali, ma non è “vangelo”. Per prima cosa: proteggere il mercato dell’acciaio che, ora più che mai, si conferma strategico anche se potrà accentuare il conflitto anche tra le stesse componenti societarie (intendi Mittal), ma mettendo finalmente mano all’ambientalizzazione che non è mai veramente partita, per colpe soprattutto politiche. Non vorremmo che la crisi attuale fosse un’ennesima scusa per tirare a campare. Poi: verticalizzare i prodotti siderurgici, impegno sempre proclamato ma mai attuato. Valorizzare il turismo, sfruttando le risorse locali, senza enfatizzarne le potenzialità e senza devastare il territorio per non creare danni irreversibili. Rilanciare le produzioni cerealicole, che sono sempre state di qualità alta, ma compresse dalla concorrenza esterna, limitando per necessità o per convinzione le farine super raffinate, rivelatesi dannose per la salute dei consumatori. Ridurre le produzioni agricole destagionalizzate (costose e bisognose di surplus energetico enorme) e le importazioni utili solo a importatori e speculatori. E forse poi si dovrà ragionare più lucidamente del “grande ruolo del porto”, che già a partire dagli anni Settanta ha solo alimentato illusioni, sia perché ha un rapporto inquinamento-da-traffico/occupazione da rivedere, sia perché soggetto a concorrenza e a fluttuazioni enormi, sia perché, come abbiamo visto, anche la globalizzazione comporta eccessi e danni che vanno equilibrati; così pure il consumo smodato di elettricità che sta dietro al web, che ora non ci accorgiamo di pagare, ma che pesa fortemente sulle nostre tasche. Ed è solo l’inizio.

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