Renaud, che in genere lavorava in coppia col fratello maggiore Craig, aveva raccontato in passato tanti altri conflitti e disastri, prodotti dagli esseri umani o dalla natura, nei quattro angoli del mondo. Alla notizia della sua morte, da Washington sono giunte minacciose parole di ritorsione.La sua morte, purtroppo, non è rimasta isolata.
L’elenco delle vittime con badge “press” si è arricchito di nuovi nomi e potrebbe allungarsi ulteriormente. Sono cinque, al momento, i caduti nel raccontare la furia dell’invasione russa in Ucraina: oltre a Renaud, Benjamin Hall, Pierre Zakrzewski, Alexandra Kuvshinova e il cameraman Yevhen Sakun. Secondo fonti ucraine i reporter feriti sarebbero una quarantina. E che dire della giornalista russo-ucraina Marina Ovsyanikova, che aveva manifestato in diretta tv contro la guerra? Perseguitata per aver espresso le sue convinzioni contro la guerra.
Ma quanto vale la vita di un giornalista?
Esattamente quanto quella dei tanti civili, uomini, donne, anziani e bambini ucraini vittime dell’avanzata russa. Vale quanto quella di un bambino, di una donna, di un uomo trafitti dalle pallottole di un fucile, dalle schegge di una bomba, oppure rimasti schiacciati nel crollo di un edificio. Vale quanto l’esistenza di un soldato ucraino impegnato nella resistenza e nella difesa del suo Paese. Vale quanto la vita del soldato russo, mandato a morire, per una causa sbagliata, in terra ucraina.
Vittime diverse della stessa furia omicida, di una politica assassina che pretende di risolvere i problemi con le armi anziché con il dialogo e la diplomazia.Forse la sola – ma non indifferente – differenza sta nel fatto che del giornalista che muore sul campo possiamo conoscere il nome: i media si affrettano, giustamente, a raccontarci la sua storia personale e professionale. Di altri che muoiono oggi, sono morti ieri o moriranno domani per questa nuova, disgraziata guerra, non sapremo i nomi, né le storie tragicamente interrotte, né i sogni spezzati. Non conosceremo i volti dei bambini uccisi a Mariupol, delle donne violentate dai soldati di Putin, dei vecchi morti d’infarto per il terrore provocato dai missili su Kiev e sulle altre città dell’Ucraina.
Allo stesso modo non conosciamo – né i media si preoccupano di farci conoscere – nomi e storie di chi perde la vita nelle decine di conflitti in corso nel mondo:in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Guerre a noi sconosciute, eppure altrettanto vere, inconcepibili, tragiche. Guerre che apparentemente sembrano non toccarci, salvo poi scoprire che i drammi e le instabilità così generate causeranno ricadute politiche, sociali, migratorie, economiche, energetiche… che interpelleranno, presto o tardi, anche le nostre, troppe volte distratte, latitudini.
Don Primo Mazzolari (1890-1959), parroco pacifista nella Bassa padana, che era stato al fronte durante la prima guerra mondiale, scriveva nel suo volume “Tu non uccidere”, apparso nel 1955 in piena “guerra fredda”: “Cristianamente e logicamente la guerra non si regge. Cristianamente, perché Dio ha comandato: ‘Tu non uccidere’ (e ‘Tu non uccidere’‚ per quanto ci si arzigogoli sopra, vuol dire: ‘Tu non uccidere’); e per di più si uccidono fratelli, figli di Dio, redenti dal sangue di Cristo; sì che l’uccisione dell’uomo è a un tempo omicidio perché uccide l’uomo; suicidio perché svena quel corpo sociale, se non pure quel corpo mistico, di cui l’uccisore stesso è parte; e deicidio perché uccide con una sorta di ‘esecuzione in effigie’ l’immagine e la somiglianza di Dio, l’equivalenza del sangue di Cristo, la partecipazione, per la grazia, della divinità”.
Vocabolario segnato dal tempo, eppure estremamente e precisamente attuale.
*direttore generale Fondazione Missio