È passato più di un mese dall’inizio di questa “guerra crudele e insensata” in Ucraina, “atto barbaro e sacrilego”, ricorda Papa Francesco nel dopo Angelus, rivolgendosi ai presenti in una piazza san Pietro dove si vedono bandiere ucraine e una lunga bandiera della pace. Ogni guerra “rappresenta una sconfitta per tutti noi; per questo il vescovo di Roma chiede di convertire “lo sdegno di oggi nell’impegno di domani”; di ripudiare “la guerra, luogo di morte dove i padri e le madri seppelliscono i loro figli, dove gli uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono”. Che cos’è la guerra? È bestialità; è un bambino su due in Ucraina sfollato, “questo vuol dire distruggere il futuro, provocare traumi drammatici nei più piccoli e innocenti tra di noi”. Non può essere “qualcosa di inevitabile. Non dobbiamo abituarci alla guerra”. Da questa vicenda non possiamo uscire come prima, altrimenti “saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”. La guerra “non devasta solo il presente, ma anche l’avvenire di una società”.
Ancora un appello, accorato, sofferto, dopo la preghiera di venerdì, consacrazione a Maria, regina della pace, dell’umanità, dell’Ucraina e della Russia. Preghiera per chiede la fine del conflitto – “ogni giorno di guerra peggiora la situazione per tutti” – e per invitare i responsabili politici a fermare il conflitto: “tacciano le armi, si tratti seriamente per la pace”.
Appello, preghiera, nella domenica in cui la liturgia ci propone l’invito a lasciarci riconciliare con Dio, a avere fiducia nella sua promessa. Luca ci propone la famosa parabola del figlio prodigo, o forse dovremmo dire del padre misericordioso, e ci rivela così un altro aspetto del volto del nostro cammino in questo tempo dell’anno liturgico. Da un lato c’è il figlio minore che si allontana con la parte del patrimonio che gli spetta e che sperpera; e c’è un padre che ha il coraggio e la forza di non fare niente, non lo va a cercare come il pastore che si mette in cerca della pecora smarrita, ma resta a casa, e ne attende il ritorno: non è rassegnazione o disinteresse, ma attesa sempre vigile. La parabola, inoltre, ci dice che Dio non legge la storia con i nostri occhi, che non vede servi ma figli e che rifiuta di essere trattato da padrone. Rifiuto che è segnato dai gesti che ordina ai servi: portare al figlio l’abito lungo, l’abito della festa, l’abito del signore della casa e non del servo; mettere l’anello al dito del figlio che viene così reinserito nella sua dignità filiale. Infine, i sandali, segno che si tratta di un uomo libero: il servo non indossa calzari nuovi.
C’è poi la figura del figlio maggiore, il quale, dice Francesco, “nel rapporto con il Padre basa tutto sulla pura osservanza dei comandi, sul senso del dovere. Può essere anche il nostro problema con Dio: perdere di vista che è Padre e vivere una religione distante, fatta di divieti e doveri. E la conseguenza di questa distanza è la rigidità verso il prossimo, che non si vede più come fratello”. Siamo un po’ tutti dei figli maggiori nei nostri comportamenti; non ci rendiamo conto che nella festa del ritorno, il padre, Dio, ridà all’uomo, mediante il suo perdono, la dignità perduta, la dignità del figlio. Il padre cerca di far capire al figlio maggiore che “per lui ogni figlio è tutta la sua vita”. Così gli esprime due bisogni “che non sono comandi – dice il Papa – ma necessità del cuore: far festa e rallegrarsi”. Far festa per “aiutare a superare la paura e lo scoraggiamento, che possono venire dal ricordo dei propri peccati, offrire una calda accoglienza, che incoraggi ad andare avanti. Dio non sa perdonare senza fare festa”. E poi rallegrarsi perché “chi ha un cuore sintonizzato con Dio, quando vede il pentimento di una persona, per quanto gravi siano stati i suoi errori, se ne rallegra. Non rimane fermo sugli sbagli, non punta il dito sul male, ma gioisce per il bene, perché il bene dell’altro è anche il mio”.
Una parabola, ricordava Benedetto XVI che “costituisce un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi. Che cosa sarebbero la nostra cultura, l’arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio padre pieno di misericordia”.