La testimonianza: Bosnia, 30 anni fa la guerra. Omerspahic (ex prigioniero): “Io non odio”

06 Apr 2022

Stessa sofferenza e stessi crimini: parte da questa consapevolezza la storia di Amir Omerspahic, bosgnacco, che dopo aver vissuto, a soli 17 anni, gli orrori della guerra in Bosnia, ha deciso di raccontare la sua storia di ex detenuto di un campo di prigionia serbo. Amir, insieme ad altri suoi amici serbi e croati, accomunati dalla stessa sorte, hanno maturato, grazie a un progetto di peace-building di Caritas Bosnia, la certezza che il popolo di cui facevano parte si era macchiato degli stessi crimini commessi da coloro che li avevano vessati. Uomini accomunati dalla stessa sofferenza che oggi, trenta anni dopo, gridano il loro ‘no’ alla guerra e all’odio etnico e settario.

(Sarajevo) “Sono nato nel villaggio di Godjenje, nel comune di Han Pijesak, nell’Est della Bosnia Erzegovina. Un paese multietnico, abitato a maggioranza da serbi, ma nei villaggi circostanti molti erano bosgnacchi. Fino all’aprile 1992 nessuno dava importanza alla religione che professavi o alle tue origini e la vita scorreva tranquilla”: comincia così il racconto di Amir Omerspahic, che al Sir ripercorre il conflitto che dal 1992 al 1995 mise croati, bosgnacchi e serbi gli uni contro gli altri, in un susseguirsi di orrori fermati solo dagli Accordi di Dayton (novembre 1995). Quello di Amir non è solo il drammatico racconto di guerra di un giovane bosgnacco ma è anche la testimonianza che getta luce sul destino di tante persone (oltre mezzo milione, ndr.) che, in quel tempo, hanno vissuto la deportazione e la prigionia negli oltre 960 campi di concentramento. Trenta anni dopo il ricordo di quegli anni è ancora vivo e dettagliato.

 

La storia. “Avevo 17 anni quando nella primavera del 1992 sono cominciati gli attacchi dell’esercito jugoslavo, o meglio dire serbo, e delle milizie affiliate. Fu subito chiaro che quello che un tempo era l’esercito di tutti, da quel momento sarebbe stato l’esercito solo di una parte. All’inizio di giugno il mio villaggio e quelli vicini, tutti musulmani, furono bombardati dai serbi. L’unica cosa da fare era fuggire nei boschi e nascondersi tra le montagne. In molti persero la vita, anche bambini, tanti rimasero invalidi”. Ma era solo l’inizio perché nel settembre del 1992 il villaggio di Amir fu raso al suolo costringendo il giovane a rifugiarsi, con la famiglia, nella vicina città di Zepa. Anche qui continuarono i bombardamenti serbi nonostante i cieli di Bosnia fossero stati dichiarati no fly zone dalla Nato. La fame, inoltre, si faceva sentire perché i serbi impedivano il passaggio degli aiuti umanitari. Nel maggio 1993 Zepa fu dichiarata dall’Onu area protetta: “In quel momento – ricorda Amir – la situazione cominciò a migliorare ma non si poteva uscire perché eravamo circondati”. Tutto rimase così fino al luglio del 1995 quando le forze serbe attaccarono e conquistarono Zepa e i centri vicini. “Eravamo nel panico perché avevamo saputo, da alcuni sopravvissuti, dell’eccidio di Srebrenica avvenuto pochi giorni prima: oltre 8mila persone di fede musulmana trucidate dalle milizie del generale Ratko Mladic, comandante militare dei serbi di Bosnia”. A quel punto, continua Amir, “l’unico modo per sopravvivere era quello di attraversare il fiume Drina e passare il confine serbo ma il 2 agosto del 1995 veniamo catturati, con i miei compagni, dai serbi che come segno di benvenuto uccisero un nostro amico sotto i nostri occhi”. Da quel momento in poi solo violenza e umiliazioni: “Ci fecero mettere in colonna due a due, con le mani dietro la nuca, e costretti a correre nel bosco. Mentre correvamo ci picchiavano sulla testa. Solo in quel momento mi resi conto di sanguinare ma non potevo togliere le mani. Avevo una grave ferita alla mano destra. Poi ci caricarono su dei camion, ammassati all’inverosimile al punto che alcuni prigionieri morirono soffocati. Arrivati in un piccolo villaggio serbo – continua il racconto di Amir – fummo presi in carico dalla polizia locale. In quel momento pensai che le nostre condizioni sarebbero migliorate invece l’inferno stava solo per cominciare. Siamo stati interrogati, accusati di cose mai commesse, picchiati, umiliati in tutti i modi per lunghissimi giorni. Ci davano del cibo immangiabile, nessuna igiene. Al nostro arrivo ci venne dato anche un nome serbo perché dovevamo chiamarci tra di noi con nomi serbi, dovevamo pregare come i cristiani ortodossi, segnarci con la croce. La prima volta che mi sono fatto il segno di Croce ho sbagliato e per questo sono stato preso a schiaffi da un soldato. Nel frattempo la ferita alla mano destra si era aggravata, non potevo muovere più il braccio per l’infezione. Le mie condizioni di salute peggioravano. Fui visitato da una dottoressa che ordinò subito il mio ricovero perché avevo una cancrena in stato avanzato”. In ospedale Amir viene curato da un medico: “Dopo tanto tempo, quella volta, sono tornato a sentire un po’ di calore umano grazie a quel medico che mi ha salvato la vita. Ho perso una parte del pollice ma questo non importa. Quando fui dimesso per essere riportato al campo di prigionia, il medico mi donò una coperta – fino ad allora avevo dormito sul cemento – e ai soldati diede l’ordine di non picchiarmi più. A quel punto le torture furono solo psicologiche. Da quel campo di concentramento sono uscito il 29 gennaio del 1996″.

“Non sono mai riuscito a capire il motivo di così tanto odio nei nostri confronti, da parte di persone non avevamo mai visto in vita nostra”.

Dentro il tunnel. L’uscita da quel campo, per Amir, coincide con l’ingresso in un tunnel fatto di isolamento dal mondo, di problemi di salute, di silenzio. L’unico lampo di luce restava il volto di quel medico serbo, “il volto di chi mi ha salvato. Quella persona, quel popolo che vedevo nemico, aveva il mio stesso cuore, la mia stessa anima”.

“Io non odio i serbi, perché come in ogni popolo, ci sono buone e cattive persone. Nella mia esperienza, nel momento peggiore quando stavo rischiando la vita, è stato un serbo a salvarmi che non mi ha chiesto chi fossi. Mi ha trattato da persona. Non sono ossessionato dall’odio, mi sento sulla strada giusta, quella della comprensione e della riconciliazione tra le persone”.

Una missione non facile nella Bosnia del post Dayton: “All’inizio ci hanno chiamato anche traditori, ma non è importante perché sentivo e sento che era la cosa giusta da fare. Siamo andati a parlare ovunque in Bosnia, in luoghi a maggioranza croata, bosgnacca e serba. La cosa che più ci fa piacere è parlare ai giovani, nelle scuole, nei gruppi, perché non è giusto che i giovani vivano l’esperienza della guerra”.

“Non parliamo di colpevoli, ma raccontiamo le nostre vicende personali”.

“Lo sforzo e il dolore di ricordare diventa soddisfazione quando vedi questi giovani capire che la divisione e l’odio non pagano. Di una cosa mi rendo conto: c’è bisogno ancora tanto di parlare, di raccontare, di fare chiarezza. Spetta ai tribunali giudicare quanto è accaduto. Purtroppo la nostra politica non ha interesse a raccontare queste cose. I politici vivono ancora in una mentalità di divisione se non di guerra. Sono più interessati al potere che al bene del popolo che stordiscono con il mito del nazionalismo, utile solo a garantirsi il voto”. Anche per questo motivo Amir segue con preoccupazione ciò che accade in Ucraina: “la speranza è che il conflitto non si allarghi anche ai Balcani. Dobbiamo fare tesoro dell’esperienza della guerra del 1992”. A riguardo Amir ci tiene a ringraziare l’Italia e le migliaia di volontari che si sono prodigati per il popolo bosniaco, durante la guerra. “I bosniaci sono molto legati all’Italia. Abbiamo anche tifato per voi all’ultimo Europeo”, conclude con un sorriso.

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