Antonio Di Reda: “Il mio sì a Dio da adulto”
Quando tutto sembra già scritto, la vita, il destino o Dio, ci mettono lo zampino. Così è successo ad Antonio Di Reda, 42 anni. La sua è la storia di una vocazione adulta, che ha scompaginato una vita già scritta: il lavoro di anni come responsabile elettrico di una ditta dell’appalto ex Ilva, una busta paga di 1400 euro al mese, un mutuo, una casa tutta sua. «Percepivo però che qualcosa mi mancava»- racconta oggi, a poche ore dalla consacrazione a diacono da parte dell’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, nella Concattedrale Gran Madre di Dio. «Paradossalmente io mi sono avvicinato a Dio, allontanandomene. Ho sempre avuto un legame forte con la Chiesa. Quando ho avvertito che tutto era compiuto, la mia vita scritta, casa, lavoro, fidanzata, ho sentito altrettanto fortemente che mi mancava qualcosa. Se ero in parrocchia o partecipavo alle funzioni, questa inquietudine veniva meno, lì stavo proprio bene. Così ho cominciato a ricercare il senso della felicità autentica. Avevo 33 anni, per due anni ho partecipato agli incontri vocazionali a Poggio Galeso, ai tempi con don Giovanni Chiloiro e poi con don Davide Errico. Quando ero ormai convinto c’è stato lo stop dell’arcivescovo che mi ha detto di risolvere prima una serie di aspetti pratici, prima dell’anno propedeutico. Dovevo ad esempio trovare una soluzione per il mutuo della casa. Dopo mi sono dedicato al mio cammino, con il seminario maggiore che ho frequentato a Molfetta. Ora, fino a giugno, do una mano a don Francesco Tenna, che è nella parrocchia Spirito Santo, quella dove sono cresciuto, a due passi da dove abito e mi sento felice». Chi ha frequentato questa comunità negli anni ’90, Antonio lo ricorda scout. «Ci sono entrato per gioco. Prima di me avevano iniziato il cammino i miei cugini di Ginosa Marina e ne erano entusiasti. Allora io provai con il gruppo che stava nascendo vicino casa, il Taranto 17. Avevo 11 anni. È stato un percorso che mi ha fatto crescere ed avere grandi testimonianze anche sacerdotali. Ricordo gli anni con don Fiorenzo Spagnulo, con cui ho imparato che un prete deve anche essere pratico, operativo, sporcarsi le mani, pulire le grate, fare lavoretti. Le storie sono tante, gli esempi bellissimi: don Giuseppe Zito e poi don Ciro Santopietro, don Martino Mastrovito, don Giuseppe Marino e adesso in ultimo don Angelo Baldassarre e don Marco Peluso, che erano seminaristi mentre io iniziavo. Guardando a loro ho capito di voler essere un sacerdote che sia testimone credibile, nel fare, nell’accogliere storie, nel pregare e nell’insegnare come pregare. Un sacerdote tra la gente e non solo nella sagrestia». Una delle difficoltà che si hanno quando si scopre una vocazione è quella di non sentirsi all’altezza. In un mondo basato sulla performance, scambiamo Dio per un datore di lavoro che ci vuole sempre efficienti e sul pezzo ma l’amore non ha a che fare con la resa, non mette voti, non giudica, non è meritrocratico e talvolta neanche giusto. La chiamata di Dio, la scelta di seguirlo, restano un mistero a cui non si può decidere di rispondere facendo leva solo sulla propria forza di volontà. Questo sembra dire Antonio, raccontandosi. «La svolta è arrivata all’inizio del terzo anno di seminario maggiore a Molfetta. È come se avessi fatto un salto- spiega- che mi ha fatto comprendere che Dio voleva me, nonostante la mia imperfezione, nonostante non mi sentissi degno di una chiamata così importante e questo ha significato guadagnare in libertà e capire che questo cammino con Lui mi rendeva tanto felice». Due figure bibliche lo hanno guidato finora lungo il percorso: Mosé perché «grazie a un parallelismo con la mia vita, mi ha aiutato a riscoprire la presenza di Dio dentro di me e san Paolo, per il suo continuo interrogarsi sulla dignità dell’essere discepolo e nel mio caso sacerdote, persona». E mentre Antonio prende consapevolezza che manca davvero poco perché ci sia questo ulteriore e ultimo passaggio necessario per diventare sacerdote, il pensiero va già al futuro, diviso tra il desiderio di rimanere a casa «quella parrocchia intitolata allo Spirito Santo che è stata davvero una seconda famiglia, un riferimento continuo e le nuove esperienze che mi attenderanno, ovunque possano portarmi. Tutto è arricchimento e scoperta»-dice- con la gioia di chi sa che il meglio deve ancora venire.