La democrazia e l’informazione…
Il dibattito pubblico sulle responsabilità della guerra in Ucraina è di recente andato fuori dallo steccato della geopolitica per invadere il territorio della libertà di stampa. Si discute di colpe russe e di aiuti agli ucraini, ma si riflette pure sul ruolo che un’informazione libera può e deve avere nella narrazione degli eventi bellici e anche nella rincorsa a una soluzione pacifica. Proprio mentre si commemorava la giornata mondiale della libertà di stampa, è stata presentata la classifica che Reporter senza frontiere stila ogni anno per valutare lo stato di salute del giornalismo in 180 paesi: l’Italia perde 17 posti. Nel 2021 l’Italia era al 41esimo posto, come nel 2020, quando aveva scalato due posti rispetto al 2019. Nel 2016 l’Italia era 77esima, poi è salita al 41esimo posto: adesso l’Italia scende al 58esimo. Un netto peggioramento, che potrebbe anche aggravarsi: fra poco uscirà il report annuo di Freedom House, rivolto ai rapporti di dipendenza fra il giornalismo e il potere. Una riflessione si impone, partendo da un fatto vero. A metà anni settanta, alla prova orale di ammissione all’elenco dei giornalisti professionisti ci fu un candidato che disse: “Un giornale può non essere neutrale, ma deve essere imparziale. La neutralità è una condotta politica, l’imparzialità è una condotta mentale. Libertà di stampa non significa che tutti i giornali devono pubblicare tutte le opinioni di tutti, significa che i giornali hanno il diritto di manifestare la propria. Il giornale serio è quello che dà al lettore le informazioni che gli consentono di farsi una sua opinione, anche differente da quella del giornale. È evidente che la politica e l’editoria non vogliano correre rischi e si assicurino con formule che, solo in apparenza, garantiscano tutti. La libertà non è divisibile, non è frazionabile: fare ciò, significa uccidere la libertà”. È probabile che il candidato conoscesse bene il giornalismo anglosassone e i suoi casi più eclatanti. È una delle più brutte e più tragiche pagine della già di per sé mostruosa guerra del Vietnam quella riguardante il massacro di My Lai, compiuto nel marzo del 1968. Forse solo pochi ricordano il caso: gli americani hanno a lungo evitato di divulgare i fatti. Il 16 marzo ’68 un reparto di soldati americani fu attaccato dai vietcong – gruppo paramilitare di resistenza contro il regime filo-americano del Vietnam del Sud, il quale ebbe un ruolo importante nella guerra – che si erano mischiati agli abitanti del villaggio di My Lai, a 850 chilometri a nord di Saigon. Il tenente William Calley, per rappresaglia, diede l’ordine di uccidere gli abitanti del villaggio, in prevalenza anziani, donne e bambini: uccisero 347 persone, prima di essere fermati dai loro stessi colleghi. Un elicottero di pattuglia si accorse di ciò e atterrò sul villaggio, puntando i mitragliatori contro gli stessi commilitoni. Erano solo in tre, tre graduati che fermarono la furia assassina dei colleghi e salvarono undici persone. Calley e i suoi uomini subirono un processo in corte marziale, che portò a molte condanne anche se le pene furono poi in parte attenuate da Nixon. La notizia sulle prime fu nascosta alla stampa: l’esercito non voleva che l’opinione pubblica statunitense mettesse il naso nella faccenda. Nel novembre dell’anno successivo, a un anno e mezzo dai fatti, il giornalista Seymour Hersh venne a conoscenza di ciò e preparò un reportage che varie riviste si rifiutarono di pubblicare. Dapprima la notizia uscì sul Plain Dealer di Cleveland, un giornale di provincia a tiratura limitata, che fece il botto. Fu un vero scoop, che venne ripreso da tutti i giornali del mondo e che assestò una mazzata all’appoggio che gli statunitensi stavano dando a quella guerra. Tornando al ruolo dell’informazione nel nostro Paese, c’è da dire che, nella storia del giornalismo italiano, l’ideale dell’obiettività non è mai stato importante, come, invece, è in quello anglosassone Il nostro è sempre stato in strettissimo rapporto con la politica e ha ricercato più obiettivi politici che di mercato. L’editoria italiana non è stata mai pura, cioè priva di altri interessi, altre condivisioni, altri affari. Ciò ha generato negli operatori dell’informazione una bassa coscienza della propria identità professionale e del peso dell’ideale dell’obiettività e, per di più, uno scarso interesse verso le esigenze dei lettori. Così come diceva un giornalista che godeva di grande reputazione nella nostra città, “il nostro problema è che nasciamo giornalisti e moriamo intruppati se ci va bene, altrimenti moriamo tesserati”. La spiegazione della citazione andava, e va ancora oggi, ricercata in un forte parallelismo e una forte compenetrazione fra i molteplici poteri e i mass media ed è per ciò che l’autonomia degli operatori dell’informazione è sempre stata limitata, compressa. Ciò che ora sta avvenendo nel mondo dell’informazione è da collegare al fatto che in Italia non si mai è imposto un modello di giornalismo in posizione autonoma fra cittadini e potere con un ruolo di “cane da guardia della democrazia”. Forse, dovremmo – non è un plurale maiestatis, è un noi inclusivo anche di chi scrive – iniziare a essere svincolati dal potere, da ogni potere, a controllarlo, a sorvegliarlo, a incalzarlo, a perseguitarlo, ad azzannarlo e, se proprio è necessario, a sbranarlo. Fare ciò vuol dire salvaguardare, rinvigorire la libertà.
foto Sir/Marco Calvarese