“Stare accanto a Falcone, vedere come lavorava, la sua competenza, la sua passione, per me è stata un’esperienza unica – spiega -. Era rigoroso negli accertamenti, preciso, verificava ogni dettaglio per allontanare qualsiasi possibile dubbio della corte. E soprattutto aveva una grande onestà intellettuale: era deciso sia quando c’era da procedere in giudizio, sia quando c’era da prosciogliere una persona in assenza di prove certe”.
Neanche quarantenne, Pellegrini assunse il comando della sezione Anticrimine di Palermo dal 1981 al 1985. Soprannominato dai suoi “Billy the Kid”, Pellegrini guadagnò ben presto la fiducia di Falcone grazie alla proposta di un nuovo metodo investigativo, che poneva al centro la tracciabilità degli spostamenti delle grandi somme di denaro in mano alla mafia. Ancora fu Pellegrini a consegnare al magistrato il primo rapporto “Michele Greco + 161”, documentazione che si rivelò fondamentale per il maxiprocesso, che con la sentenza finale della Cassazione vedrà confermati 19 ergastoli per un totale di 2665 anni di reclusione. “Fu un’operazione immensa” sottolinea Pellegrini.
Fu anche l’uomo che indagò su Buscetta il potente boss legato alla mafia perdente, arrestato in Brasile alla fine del 1983. Quando il 15 luglio del 1984 “Don Masino” sbarcò a Fiumicino accanto a lui sedeva proprio Angiolo Pellegrini. E sempre lui con Falcone raccolse per mesi le sue dichiarazioni in una caserma di Roma, mentre tutti erano convinti che non avrebbe mai collaborato con la giustizia italiana.
“Di quel periodo – aggiunge con una velo di tristezza nella voce – ricordo che, dopo la giornata di interrogatori, andavamo in albergo (sempre diverso ogni volta) e poi facevamo lunghe camminate per Roma parlando dell’inchiesta ma anche di tante altre cose personali”.
L’amarezza emerge quando arriviamo a parlare di quel tragico 23 maggio 1992: non è facile infatti essere uno dei pochi sopravvissuti. La casualità della vita ha voluto che quel giorno Pellegrini atterrasse a Punta Raisi con il volo di linea poco dopo Falcone e che i due non facessero il tragitto in macchina insieme, come spesso invece capitava. Lui arrivò a Capaci, accompagnato da un collega, quando il traffico era bloccato a causa dell’esplosione: “Non capivamo cosa fosse successo. Uscimmo quindi dall’autostrada e arrivammo a Palermo. Lì fui informato dell’accaduto”. “La mafia aveva capito – continua – che le indagini erano state fatte in modo serio, che i processi non sarebbero finiti con l’assoluzione per assenza di prove e quindi andarono a bussare alle porte dei piani più alti”. E così, con la morte di Falcone e di Borsellino, conclude Pellegrini “dopo aver vinto tante battaglie non riuscimmo a vincere la guerra contro la mafia”.
(*) Toscana Oggi
(Foto ANSA/SIR)