Matilda De Angelis, giovane attrice di successo, pochi giorni fa in un post su Instagram aveva confessato la sua fragilità, il suo problema con un’ansia schiacciante scaturita dal bisogno di controllo e dalle crudeli idealizzazioni di se stessa imposte dal mondo della visibilità mediatica; da qui, le crepe (espresse a suo dire dal sintomo dell’acne) e il bisogno di uno sfogo, di una confessione almeno virtuale: “Io sto imparando che non posso controllare tutto nella vita e che prefissarmi costantemente uno standard di perfezione irrealizzabile in ogni ambito (lavorativo, sentimentale ecc.) mi ha intossicato la mente”.
Controllo e smania di perfezione: le due forme tipiche della più rarefatta e insidiosa delle tre concupiscenze, cioè la superbia della vita, l’inclinazione, la tendenza a dover controllare tutto e tutti per poter riempire quel vuoto di fondo che le altre due concupiscenze, più ingenue, propongono di riempire rispettivamente con i piaceri sensibili (nel caso della concupiscenza della carne) e con le conferme e gli applausi da parte degli altri (e questa è la concupiscenza degli occhi). Naturalmente la promessa di risoluzione, come per tutte le tentazioni, è vana, e i vizi che scaturiscono dalle concupiscenze paradossalmente causano quanto promettevano di vincere; e così, nel caso della superbia della vita, quelle strategie che promettevano di far superare l’insicurezza attraverso il controllo (di sé e degli altri) di fatto alimentano la voragine dell’insicurezza, rendendo sempre più tesi, ansiosi, di fatto fragili. La superbia della vita propone un’idea di se stessi del tutto irreale perché altissima, priva di imperfezioni o limiti, e induce a realizzarla attraverso l’affermazione di se stessi anche a scapito di se stessi, come la De Angelis testimonia nel suo post… o meglio, come testimoniava, perché proprio ieri (14 luglio) il post l’ha cancellato, con la seguente motivazione: “Ho avuto voglia di cancellare tutto per non finire nel vortice del pietismo e della compassione, il mio post non aveva assolutamente quello scopo”.
La mentalità inveterata, che fa delle nostre concupiscenze e degli atti a cui esse ci inducono degli automatismi, quasi dei riflessi pavloviani, si è presa la rivincita su questa giovane donna che per un istante si era permessa di chiedere aiuto: il rifiuto della compassione è in fondo il rifiuto di un’immagine di sé, riflessa nello sguardo degli altri, che non si vorrebbe; e dunque va cancellato quanto stride con le pretese del nostro io ideale, per ridare di noi stessi un’immagine (anzitutto a noi stessi) vincente, forte, autonoma.
Autonomia che, in realtà, non è altro che un sinonimo di solitudine. Nessuno si salva da solo, come anche Matilda, nel suo sprazzo di libertà da se stessa e di sincerità, aveva scritto con grande lucidità: “Bisogna imparare ad essere vulnerabili, a cercare aiuto, ad aprirsi rispetto alle proprie fragilità, a rispettare i tempi e gli spazi che ci sono consoni, bisogna imparare a non essere nemici di noi stessi, a rispettarci nelle nostre zone di luce come in quelle d’ombra”. È nemico di se stesso l’uomo che si nega alle relazioni, e che non si riconosce bisognoso dell’aiuto altrui. La vita si basa sul carbonio, perché la vita richiede continui passaggi di informazione ed energia da altro, richiede comunicazione, relazione – mistero trinitario insito nella materia.
Chiedere aiuto, far accedere gli altri alle nostre zone d’ombra, come le chiama la giovane attrice nel suo primo post, significa anche permettere agli altri di esporre le loro, di zone d’ombra, senza sentirsi sbagliati. Se con il suo primo post Matilda aveva dato un bellissimo esempio di come della fragilità si può parlare, dando con la sua celebrità amplificazione all’importante tema dell’ansia da prestazione indotta nei più giovani dalle pressioni dei modelli virtuali, con la sua ritrattazione ha fatto un vero passo indietro, dando l’idea che la sofferenza e le difficoltà debbano rimanere un fatto privato, muto e silenzioso, tale da non attirare l’altrui compassione, peraltro da lei erroneamente accostata al deteriore pietismo.
Vince così ancora una volta la crudele idealizzazione dell’io, che pretende la donna mediaticamente esposta come qualcuno di adamantino, autonomo (appunto), imperturbabile, che non si sfoga e non si lamenta, bella e fatale come una lama affilata.
Con questa marcia indietro abbiamo perso la possibilità di una lezione costruttiva per tante ragazze sotto analoghe pressioni, e allora auguriamo alla brava Matilda De Angelis ogni bene, nella speranza che possa imparare a valorizzare sempre più se stessa nelle sue crisi come nelle sue vittorie, ricordandosi che uno dei doveri di chi ha un volto pubblico è accrescere il bene comune mediante l’esempio, anche a costo di qualche esposizione di sé che, anche se può mettere un po’ in difficoltà, può in ogni caso servire al bene di chi guarda e ascolta.