Per favore, non diamo la colpa alla follia!
“Non capiamo come sia potuto avvenire l’abbandono di una bimba fino all’esito della morte di stenti. Condividiamo sconcerto e orrore.” Così l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha detto di Diana, 18 mesi, morta dopo essere stata lasciata in casa dalla madre per sei giorni. È una vicenda senz’altro diversa da altre accadute in Italia negli ultimi decenni, è molto più dolorosa e più inquietante a livello umano, anche di casi che più hanno impressionato l’opinione pubblica negli ultimi tempi. Non a caso questa vicenda, a distanza di diversi giorni, è ancora molto presente sulle pagine dei principali giornali: è difficile districarsi fra i numerosi articoli di giornale pieni di notizie e di ipotesi fra le più diverse. Difficile è farsi un’idea chiara su chi sia Alessia, la madre, o anche spingersi a delineare un profilo di questa donna descritta come schiva, irascibile, bugiarda, solitaria, da tre anni disoccupata. Evidenti sono, invece, le dichiarazioni della madre nell’interrogatorio avvenuto in carcere. Sicuramente la frase che colpisce di più è: “Sapevo che poteva andare così”. Vale a dire la donna sapeva che sarebbe potuta capitare qualsiasi cosa lasciando Diana sola: poteva cadere dal lettino, poteva avere sete, fame, stare male, poteva avere il terrore di ritrovarsi sola, giorno e notte, poteva piangere senza che ci fosse nessuno a sentirla, poteva morire. E alla donna non è servito neanche questo pensiero per non andare, per stare lì con la sua bambina. Ha chiuso la porta ed è andata dal suo compagno con il quale voleva portare avanti una relazione difficile. Da quanto raccontato dalla donna stessa, negli ultimi week end di giugno e di luglio, l’aveva sempre lasciata sola per due o tre giorni, raccontando a tutti bugie, alla madre, alla sorella, al compagno dal quale andava. Avrebbe potuto lasciarla a qualcuno ma forse aveva paura del giudizio, del compagno e della sorella. Impressiona pure come i suoi familiari e il compagno non si siano mai stupiti almeno del fatto che, lasciare tutti i week end una bambina di 18 mesi con qualcun altro, secondo quanto lei diceva, può sembrare prematuro e forse eccessivo. Quella frase è agghiacciante perché dietro questa lucidità c’è un orrore che rende questo caso diverso da altri: l’orrore di una freddezza emotiva, di una assenza di emozioni, di assenza di preoccupazione e, soprattutto di rapporto con la realtà. La realtà di una bambina di 18 mesi che dipende dalla madre: l’ha lasciata, pur sapendo che avrebbe potuto morire. I gesti della madre sono stati dettati da lucidità e consapevolezza e ciò rende il quadro diverso da quello, per esempio, in cui il genitore dimentica il bambino in auto sotto il sole. Non è una dimenticanza, è una sorta di annullamento: il genitore non vede più il bambino, come se lì non ci fosse e non ci fosse mai stato. Un annullamento che fa sparire l’altro e il rapporto con l’altro: il genitore non sa più che con lui c’è il bambino. Questi genitori sono disperati perché si rendono conto di aver avuto come un black out: il bambino sparisce, non c’è più nella loro mente. Ma in questo caso, la bambina c’è. La madre racconta che Diana è con sua sorella, è lucida, c’è un’intenzione di lasciarla a casa da sola, pur sapendo cosa sta facendo o comunque sapendo di andare incontro a questo rischio. In altri casi, sono emersi l’angoscia, il delirio, l’odio, la rabbia del genitore omicida. In questo caso, sembra non esserci emozione: dai TG abbiamo saputo che la donna non ha pianto, non si è angosciata, non ha avuto alcuna reazione. L’ha lasciata morire senza toccarla, senza sporcarsi le mani di sangue, a testimonianza, forse, di un’assenza totale di coinvolgimento. Sui giornali abbiamo letto le dichiarazioni di vicini, ascoltato la loro angoscia e il senso di colpa che dicono di provare per non essersi accorti di nulla. Ma tutti gli altri, il compagno, la sorella, la madre, il pediatra della bambina o chi le ha dato il tranquillante, possibile che non si siano accorti? Poi rimane il fatto. È difficile pensare a genitori che uccidono i figli. Ma la natura umana è capace di queste atrocità. Non ci aiuta il deserto delle relazioni nella società contemporanea o il muro alzato che ha incrementato aggressività e cattiveria. Certo è che c’è un filo sottile, attraverso la trama irregolare dei sentimenti inquinati che portano alla premeditazione di un omicidio o alla detonazione di una rabbia letale. Si pensi al silenzio in cui la nostra immensa comunità globale si avviluppa, fra urla mediatiche e intrecci social. È un meccanismo che lascia le persone in balia delle proprie oscurità. Chiacchieriamo, comunichiamo, conversiamo, parliamo, senza dirci nulla, perché la parte più autentica, più vera di noi è nei sotterranei più bui, è negli scantinati più oscuri del nostro io. Non può essere un clic o un like a unirci al resto del mondo. La mancata interazione è una corsa verso una deriva arida difficile da scardinare. E per favore, per rispetto per un angioletto innocente, non diamo la colpa alla follia. Di folle c’è il gesto agghiacciante che solo una mente lucida può commettere.