Regno Unito: il crepuscolo degli dei?
Con Elisabetta, regina del Regno Unito e del Commonwealth, capo di Stato per più di centocinquanta milioni di persone sparse su ben tre continenti, dalla Nuova Zelanda al Canada, scompare un punto di riferimento fondamentale per il suo paese e per il mondo intero. Gli ultimi giorni Elisabetta li ha trascorsi a Balmoral, dove solo pochi giorni fa ha assistito al quindicesimo cambio al vertice del governo britannico. Da Churchill a un giorno passato in compagnia di Boris Johnson e Liz Truss: deve essere stato troppo pure per lei. La morte della regina sta generando diffusa commozione in Inghilterra e nel resto del Regno Unito soprattutto fra chi ha visto in lei una persona di buon senso e dignità istituzionale, tanto più apprezzata quanto più stridente era il contrasto con i sempre più indecenti e scriteriati vertici politici del suo paese. Era diventata regina nel 1952, all’epoca del più grande impero che la storia abbia mai conosciuto, quello su cui non tramontava mai il sole. L’ha visto a poco a poco disgregarsi: l’ultima ad andarsene la Repubblica di Barbados nel dicembre 2021. Nella scorsa primavera un disastroso viaggio di suo nipote William nei Caraibi suggerì che molti altri seguiranno a breve. Da capo del Commonwealth, la seconda più grande organizzazione mondiale con cinquantasei stati, un tempo parte dell’impero, quasi un terzo della popolazione globale e un quinto delle terre emerse, ha fatto tutto quello che poteva per rallentare il processo. Un esperimento di declino gestito di discutibile utilità e scarse prospettive, perché a finire non è un’era del mondo, ma del Paese che, fino a non troppo tempo fa, ne guidava la metà. Fino alla morte in mondovisione e in diretta, sotto supervisione medica, tutta la sua vita è stata un lungo, lunghissimo reality show. Anche grazie a suo marito Filippo, a capo del team che curò la cerimonia di incoronazione del 1953 e stabilì di mandarla in diretta, trasformando per la prima volta uno spettacolo reale nell’inizio di una soap opera lunga un secolo, la favola bella dei matrimoni meravigliosi di principi e principesse stregati dall’ultima corona che conta. Lo stesso continuò negli anni a incoraggiare “the firm”, la ditta, a essere più telegenica, raggiungendo un posto nella videocrazia, sceneggiatore ante-litteram della serie televisiva “The Crown”, la corona, incentrata sulla vita di Elisabetta e sulla famiglia reale britannica. Anche per tutto questo, Elisabetta è stata una vera icona, consacrata da Andy Warhol e da sketch incancellabili, come quando fu “paracadutata” sullo stadio dei giochi della Olimpiade di Londra 2012 o quando tirò fuori dalla pochette pane e marmellata per celebrare il giubileo per i settanta anni di Regno in compagnia dell’orso Paddington. Memorabili pure le sue incursioni europeiste degli anni della Brexit, interventi subliminali che fanno il paio con il “pensateci bene” prima del referendum sull’indipendenza scozzese del 2014. Non potrà dire niente sul prossimo referendum. Ma chissà che cosa dirà allora su moltissime questioni aperte Carlo III, al quale ha scelto di non lasciare il trono con anticipo, in questo superata in modernità perfino dal meno progressista dei papi romani. Non si è mai fidata molto di lui, sorpassato in fiducia addirittura dal premier scozzese e laburista Tony Blair, forse perché, anche per colpa di suo figlio, furono i punti più bassi del lungo regno, il 1992, che lei stessa definì annus horribilis, in un discorso pronunciato alcuni mesi dopo il quarantesimo anniversario dell’ascesa al trono: la separazione da Diana Spencer e il mercoledì nero, giorno in cui la lira italiana e la sterlina britannica furono costrette a uscire dal sistema monetario europeo. Per non parlare, poi, del 1997, in cui perse il polso del suo Paese, rifiutandosi di rientrare a Londra alla notizia della morte di Diana. “Dall’impero alla Brexit”: probabilmente, questa è una sintesi smoderatamente brutale del regno di Elisabetta, ma in fondo è una descrizione puntuale del Regno Unito degli ultimi decenni, che non ha mai smesso di rimpicciolirsi e rischia un’ennesima amputazione. Altri paesi potrebbero, infatti, abbandonare il simbolo monarchico. L’ultimo ad averlo fatto è stata Barbados, un’isola caraibica abitata da trecentomila persone il cui governo ha affermato che “è arrivato il momento di lasciarci alle spalle il nostro passato coloniale”. Ma la lista non si concluderà con Barbados. La notizia è passata fin troppo inosservata, ma nel maggio scorso, quando i laburisti hanno vinto le elezioni legislative in Australia, hanno nominato, fra gli altri, pure un sottosegretario per la repubblica. Il partito vorrebbe organizzare un referendum per transitare dalla monarchia alla repubblica nella ipotesi in cui ottenesse un secondo mandato. Con la scomparsa di Elisabetta non si volta soltanto la pagina coloniale, ma anche quella postcoloniale. Era diretta discendente della regina Vittoria e ha così vissuto la transizione postcoloniale. Carlo III dovrà fronteggiare un mondo completamente diverso. Toccherà a lui affrontare le spinte dell’indipendentismo scozzese e del separatismo nordirlandese ma innanzitutto decidere se spezzare l’incantesimo, chiudere l’ultima stagione della serie e lasciare che si avvii il processo di autoriforma costituzionale che possa portare il Paese nell’avvenire, in un futuro almeno europeo. Piuttosto che niente!