Pregare, marciare: la pace chiama tutti
Ne parliamo con mons. Alessandro Greco
Pregare e marciare sono entrambe azioni utili alla pace. Abbiamo intervistato il vicario generale dell’arcidiocesi tarantina
Si allarga, finalmente, l’iniziativa di quanti chiedono un impegno attivo per la pare. La situazione di disagio umano e spirituale che stiamo vivendo e le parole con cui il papa invoca continuamente la fine della guerra, alimentano l’iniziativa di gruppi, partiti e movimenti che, seppure ancora da fronti distinte, vogliono che la parola pace entri costantemente nell’opinione pubblica. Ma si ha una chiara visione di quanto sta accadendo e dei pericoli che il mondo corre e della necessità che il dialogo prenda il posto dell’odio? Quanto è pericolosa l’assuefazione e quanto contano i criteri di giustizia? Infine: è utile manifestare per la pace? Sono le domande che rivolgiamo a monsignor Alessandro Greco, vicario generale della diocesi, docente di teologia e già direttore dell’Istituto superiore metropolitano Giovanni Paolo II.
Cominciamo dalle sollecitazioni di papa Francesco: ritiene che esse siano percepite e valutate nella loro autentica portata?
Il papa, come figura eminente e segno della presenza di Cristo, che è la nostra pace, attua la sua missione denunciando la dannosità della guerra e incoraggiando coloro che possono compiere passi decisivi. Credo che il papa parli a due livelli distinti, il primo livello è quello dei responsabili del conflitto, voglio dire gli attori: capi di stato, paesi europei, Nato, Onu… insomma gli organismi che possono concretamente intervenire. Il secondo livello riguarda tutti quanti gli altri, a tutti noi insomma, ai quali sembra che la guerra non interessi più di tanto, nel senso che si ascoltano le notizie, i bombardamenti, le stragi continue ma tutto rientra in una certa routine. Fino a quando il conflitto non ci sfiora, noi rimaniamo un po’ distanti, non voglio arrivare a dire “insensibili”, ma certamente un po’ distanti, mentre l’uomo della strada si chiede: che possiamo fare!?
Ma succede che poi si fanno i conti con i risvolti che la guerra ha anche dal punto di vista economico.
Proprio così: i costi aumentano sensibilmente, se poi ci aggiungiamo la mancanza di energia elettrica, di gas, di carburante e poi l’incidenza che questo ha sulle aziende e sulle famiglie, allora la guerra comincia pian piano a toccarci più da vicino e allora siamo più attenti all’assurdità e alla mostruosità della guerra. Ecco: io credo che questi due livelli vadano distinti. Il papa deve esortare alla conversione per giungere a un punto di dialogo e ricominciare a ricostruire, ma sappiamo molto bene come la guerra e l’odio, come anche l’amore, non siano altro che la proiezione di ciò che c’è nel cuore di ogni uomo. La guerra non scoppia mai all’improvviso, ma è l’effetto di ciò che matura nel cuore e nell’anima di ogni persona e perciò ognuno di noi dovrebbe in qualche modo sentirsi responsabile.
Cosa può fare ognuno di noi, oltre che pregare?
Deve fare una vita coerente, di pace, eliminando litigi e divisioni. La guerra può sembrare un fatto a sé, in realtà è un’espressione massima che coinvolge un po’ tutti ed è il risultato di come noi viviamo, anche se al momento non ce ne accorgiamo.
Senza giudicare il comportamento dei popoli, viene alla mente chi, come Gandhi, invitata alla “resistenza passiva”, e viene da chiedersi, guardando al Vangelo: una risposta violenta anche a un’aggressione violenta è sempre il metodo giusto per risolvere i conflitti?
Di solito si dice che le responsabilità sono sempre da condividere, ma può essere che non sia sempre così. Se parliamo di un paese che invade un altro è logico che emotivamente mi schiero dalla parte dell’aggredito. Se un paese è sovrano ha diritto al rispetto degli altri stati, di difendere la propria indipendenza, la propria identità culturale, economica, ecc… un’intromissione violenta è un’intromissione indebita che io non posso sostenere. Attenzione, però, questo è principio, poi bisognerebbe conoscere tutti i particolari, per poter determinare in maniera più chiara la presa di posizione. La resistenza passiva certamente ci sta perché è nella linea evangelica, ma mi domando fino a che punto possa essere sostenibile, di fronte a distruzioni e massacri. Il diritto alla vita non è anche un principio evangelico?
Porgere l’altra guancia è il dettato evangelico? Ma è evangelico che l’Ucraina debba essere rasa al suolo? Il principio della legittima difese è valido a tutti i livelli, per il singolo cittadino come per il popolo. Ciò non toglie che la via della pace deve essere sempre privilegiata.
I segnali che si possono fare, a partire dalla marcia di Assisi per arrivare alle marce che si stanno organizzando in questi giorni e per le settimane future, che significato possono avere? Solo simbolico o sono uno stimolo per una presa di coscienza?
La preghiera che il cristiano deve fare ed elevare a Dio che è la fonte della pace è essenziale. Le altre manifestazioni di tipo diverso, perseguono una sensibilizzazione dell’opinione pubblica, manifestazioni di dissenso nei confronti della guerra e del male, esse coinvolgono tutti e hanno come fine il bene comune. La preghiera è una sua funzione, una sua efficacia, una sua identità, ma anche le altre manifestazioni hanno un loro senso e un loro significato. Creare un movimento di opinione, anche di idee e di pensiero è fondamentale per la società di oggi.