Alla Festa del cinema, ritorno al western con la serie Sky ‘Django’ e ‘Butcher’s Crossing’
Ritorno o rilettura del mito del western a stelle e strisce alla Festa del Cinema di Roma, domenica 16 ottobre. Anzitutto Sky svela in anteprima mondiale i primi due episodi dell’attesa serie “Django” di Francesca Comencini, responsabile artistica del progetto e regista di quattro episodi. La serie è un’importante produzione europea che vede capofila Sky Studios, con nel cast Matthias Schoenaerts, Noomi Rapace, Nicholas Pinnock e Lisa Vicari. Ancora, lo statunitense “Butcher’s Crossing”, western diretto da Gabe Polsky, che prende le mosse dal romanzo di John E. William (autore noto per il recente caso editoriale “Stoner”): il racconto di una brutale caccia al bufalo tra sguardi esistenziali e smarrimenti nei territori della follia. Protagonisti Nicolas Cage e Fred Hechinger, star della miniserie “The White Lotus”. Punto Cnvf-Sir.
“Django” (serie tv)
“Un omaggio appassionato al western per cercare di parlare del nostro tempo”. Ha le idee chiare la regista-sceneggiatrice Francesca Comencini, che ha affrontato il complesso progetto della serie “Django” muovendosi tra tradizione cinematografica, rivisitando l’omonimo film di Sergio Corbucci del 1966, e al contempo desiderio di innovazione, di attualizzazione.La Comencini precisa: “una serie colorata, luminosa e al tempo stesso malinconica e portatrice di un senso di crisi verso tutto ciò in cui si è creduto, e del tentativo di andare avanti lo stesso, cercando una seconda possibilità in quel che resta della vita una volta perdute le illusioni”. “Django” è in cartellone alla 17a Festa del Cinema di Roma, ma gli spettatori la vedranno sui canali Sky e la piattaforma Now nel 2023; un progetto ambizioso, frutto di una cordata internazionale guidata da Sky con Canal+ e insieme a Cattleya, Atlantique Productions (Mediawan), Studiocanal e Odeon Fiction.
La storia. Texas, Stati Uniti, fine ‘800. Django (Matthias Schoenaerts) si presenta nella città di New Babylon sotto mentite spoglie, come fuggiasco senza radici. È alla ricerca della figlia Sarah (Lisa Vicari), l’unica sopravvissuta al massacro della propria famiglia. Django scopre che la ragazza sta per convolare a nozze con John Ellis (Nicholas Pinnock), fondatore di New Babylon, città libera dove fuggitivi e reietti trovano accoglienza. Respinto da Sarah, che non ne vuole più sapere di lui, Django decide comunque di rimanere in città per contrastare gli assalti di Elizabeth Thurman (Noomi Rapace), influente signora di Elmdale, che vede nella comunità di New Babylon l’immagine della corruzione morale.
Al comando della serie “Django” c’è Francesca Comencini – tra i suoi titoli “Mi piace lavorare” (2004), “Lo spazio bianco” (2009) e “Gomorra. La serie” (2014-21) –, che ne cura la linea narrativa, condividendo la regia insieme ai colleghi David Evans (“Downton Abbey”, “Domina”) ed Enrico Maria Artale (“Il terzo tempo”, la serie “Romulus”). A firmare la serie, tra soggetto e sceneggiatura, sono Leonardo Fasoli (“Gomorra. La serie”, “ZeroZeroZero”) e Maddalena Ravagli (“Gomorra. La serie”), affiancati da Francesco Cenni, Michele Pellegrini e Max Hurwitz.
Dai primi due episodi emerge con chiarezza la forza narrativa-visiva di “Django”, che si posiziona in maniera acuta sulla linea di confine tra passato e presente,tra atmosfere tipiche del western statunitense come pure della tradizione italiana (dal citato Corbucci a Sergio Leone), sperimentando anche un andamento serrato, livido, potente, proprio dello stile visivo-narrativo della contemporaneità.
Nel racconto Django è un “senzaterra”, un senza pace, perché ha perso tutto. Nessuno è sopravvissuto alla furia della guerra e della violenza che si trascina nel Paese. L’unico ancoraggio è sua figlia Sarah, che però ha trovato una vita altra, adulta. Accanto a tale linea portante si innesta l’opposizione personale-morale tra il fondatore della città libera di New Babylon, John Ellis, e la paladina conservatrice Elizabeth Thurman, che alterna i versetti della Bibbia con criminosi colpi di pistola. Da questo si evince la stratificazione del racconto, per le storie in campo così come per le linee tematiche e topos ricorrenti, secondo il dualismo bene-male, giustizia-reato, violenza-perdono.
Di certo la serie “Django” parte molto bene, ammantata da una chiara forza visiva e da una vigorosa carica narrativa; a imprimere forza e pathos al racconto sono, poi, le interpretazioni di Matthias Schoenaerts e Noomi Rapace, abili nel mettersi sempre in gioco con sfumature intense e mai scontate. “Django” è complessa, problematica, per dibattiti.
“Butcher’s Crossing”
Proveniente dall’ultimo Toronto Film Festival, il western esistenziale “Butcher’s Crossing” segna il debutto nel lungometraggio del documentarista Gabe Polsky (“Red Army”, 2014; “Red Penguins”, 2019). Punto di partenza è il romanzo degli anni Sessanta John E. Williams, che mette a tema il cambiamento di un’epoca, il tramonto del selvaggio West con l’arrivo della modernità, declinando il tragico bagno di realtà di un giovane carico di illusioni.
La storia. Stati Uniti, 1873. Il ventenne Will Andrews (Fred Hechinger) lascia la propria famiglia in cerca di avventure nelle terre selvagge del Paese. Arriva in un villaggio del Kansas dove si accoda a una sgangherata comitiva di cacciatori di pelli di bufalo. A guidare la spedizione è Miller (Nicolas Cage), uomo dai modi asciutti e taglienti. Con l’idea di star fuori poco tempo, Will trascorrerà invece lunghi mesi, quelli più rigidi dell’autunno e dell’inverno, in compagnia di Miller e dei suoi gregari. Un viaggio negli spazi aperti della natura più selvaggi e affascinanti, dove il ragazzo sperimenterà atrocità e miserie.
Più temi si intrecciano nell’esordio di Gabe Polsky. Anzitutto il cammino di formazione (capovolto) di Will, che si mette in marcia in cerca di emozioni forti, di una grande avventura, finendo in una vertigine aberrante dove l’uomo smarrisce ogni valore, lì dove la natura umana sbiadisce in chiave ferina. Un’esperienza che graffierà, irreparabilmente, l’animo di Will. A ben vedere, il suo viaggio iniziatico richiama “Into the Wild. Nelle terre selvagge” (2007) di Sean Penn, racconto della drammatica avventura di Christopher McCandless: il film di Penn, però, corre veloce sorretto da un respiro poetico, mentre quello di Polsky incede in maniera lenta, inciampando in snodi foschi e asfittici.
Oltre alla dimensione introspettiva di Will, “Butcher’s Crossing” approfondisce il rapporto uomo-natura, creato, inserendosi nel cinema di denuncia contro le atrocità commesse dall’uomo.Polsky rimarca infatti la violenza ai danni dei bufali negli Stati Uniti, il massacro sconsiderato che ne ha ridotto drasticamente il numero nel giro di un secolo.
“Butcher’s Crossing” è un western che sconfina nel thriller esistenziale, un’opera che possiede ottime intuizioni narrative ma che si perde un po’, con lungaggini, nell’esplorare la vertigine del male. Complesso, problematico. Per adulti.