Anche le parole vanno in guerra
Sono tanti quelli che ricordano la scena tratta dal film “Palombella Rossa”, diretto e interpretato da Nanni Moretti, dove il protagonista, Michele Apicella, schiaffeggia una giornalista per l’uso superficiale e grossolano di alcune forme linguistiche, urlandogli: “Le parole sono importanti!”. Le parole sono fondamentali, valgono, rappresentano uno dei grandi privilegi dell’uomo, gli consentono di comunicare, di tramandare i saperi, di suscitare le emozioni. Con le parole si fanno delle cose, come promettere, giurare e minacciare: tutte azioni che incidono sulla vita, talvolta in modo pesante, tanto che può bastare una parola per ferire, per sempre. Prendendo atto che le parole non sono una fuga di aria dalla bocca, ma si trascinano una moltitudine di significati e anche di azioni, ci si dovrebbe preoccupare non poco della recente escalation di parole attorno alla guerra in Ucraina con tanto di minacce nucleari policromatiche: la Russia che ammonisce l’Ucraina, l’Ucraina che accusa la Russia, la Russia che se la prende con gli Stati Uniti e l’intero Occidente e gli Stati Uniti che mettono in guardia la Russia. Il tutto su un sottofondo di sciabole tintinnanti che non si sentiva in modo così distinto dai periodi più difficili della guerra fredda, dalla crisi dei missili di Cuba dell’ottobre del 1962, in cui, in effetti, si andò vicini all’olocausto nucleare. Per tutta la durata della guerra fredda, la dottrina della “distruzione mutua assicurata” ha reso possibile quello che veniva definito l’“equilibrio del terrore”, cioè la consapevolezza, condivisa da Stati Uniti e Unione Sovietica, che, a un qualunque atto di guerra nucleare, sarebbe seguita una risposta talmente devastante da rendere folle l’aver intrapreso per primi le ostilità. Era un gioco – per citare un altro film, “Wargames”, diretto da John Badham e interpretato da Matthew Broderick – nel quale tutti perdevano e nessuno vinceva e che, in conseguenza di ciò, non valeva nemmeno la pena di iniziare, se non per un impulso di morte. Questa versione estrema della dottrina del bilanciamento dei poteri ci ha preservati in uno dei momenti più cupi della nostra storia recente. Solo che, con lo scioglimento del Patto di Varsavia, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la fine della sfera di influenza sul blocco orientale e della contrapposizione solitamente detta guerra fredda, il mondo è cambiato. Per alcuni versi in meglio, ma, per altri aspetti, in peggio. La situazione mondiale è diventata più fluida, più liquida, nuovi poteri regionali e anche globali, come la Cina, si sono presentati sullo scenario mondiale, una delle due super-potenze, la Russia, ha perso gran parte del suo status e del suo potere, ma non la sua capacità nucleare e l’altra, gli Stati Uniti, avvicenda momenti di disinteresse totale per tutto il resto del mondo, come durante la presidenza di Trump, a un attivismo benevolo, ma frenetico e forse impulsivo, mescolati ai sempre presenti interessi nazionali che, alla fine, sono quelli che dettano la politica estera. Se tutto il panorama geopolitico è cambiato, alla stessa stregua è cambiata la tecnologia nucleare e, purtroppo, anche la recinzione regolatrice che avrebbe dovuto controllarla e disciplinarla. Dopo moltissimi anni di enormi speranze, in realtà, gli accordi e i trattati sul disarmo perdono pian piano adeguatezza ed efficacia o, peggio, non vengono rinnovati e si assiste a una nuova corsa a produrre nuove armi di distruzione di massa. Al tempo stesso, in alcune regioni del mondo, per esempio il Medio Oriente, nuove nazioni aspirano a possedere armi atomiche, soprattutto se altri stati nella stessa area già le posseggono. Il caso di Israele e della sua mai proclamata capacità nucleare e quello del continuo slancio dell’Iran ad aggiungere l’atomica al suo micidiale arsenale è emblematico. Per non parlare dell’India e del Pakistan. E tutto alla faccia o alla salute dei trattati di non proliferazione e degli sforzi delle Nazioni unite per limitare il numero degli stati con delle capacità nucleari. Dal punto di vista della tecnologia, si è passati dai grandi missili balistici intercontinentali con testate multiple – erano l’intelaiatura dell’arsenale al tempo dell’“equilibrio del terrore” – allo sviluppo di vettori e di testate con una minore capacità distruttiva, da usare non per assicurarsi la mutua distruzione, ma all’interno di un conflitto di tipo tradizionale: è proprio questo lo sviluppo che fa più paura. Una volta svincolati dal tabù della distruzione dell’intero globo, infatti, a qualcuno può venire la voglia di provare a trarre un vantaggio da un conflitto limitato, capace di provocare un’immane distruzione, ma non di ardere il mondo, sempre che gli altri stiano a guardare. Questo è il cardine: gli altri, volenti o nolenti, non possono rimanere a guardare e l’escalation è assicurata. Questi sono i motivi perché sono sempre più preoccupanti queste continue minacce. Il rischio è che, considerato che tutti sono un piano inclinato, si arrivi a una guerra nucleare senza che nessuno ne abbia calcolato i rischi. O, peggio, ne abbia calcolato i rischi solamente per piccoli sviluppi, per modesti incrementi. Ma dallo shaker delle parole incandescenti allo tsunami di un “fungo atomico, il passo può essere molto breve e troppo veloce.