L’ultima raccolta di poesie di José Minvervini: la parola poetica che è passione e dolore
Scrive poesie dall’adolescenza e da allora segue con interesse quanto nel mondo della letteratura e della poesia accade. Come ha fatto per anni anche per il “Nuovo Dialogo”. Ma lo fa senza lasciarsi sedurre dalle mode, mantenendo una sua costante fiducia nella capacità descrittiva e esplicativa della parola poetica. Il compito del poeta, sostiene, è quello di trasmettere i suoi versi cui affida i suoi sentimenti, le sue convinzioni, e per poterlo fare deve mantenere una accessibilità pur nella complessità del linguaggio.
È una poesia elegiaca, con forti tratti lirici, quella che José Minervini ama comporre vorsi e la sua strada editoriale, che è fatta anche di molti saggi letterari e storici e in particolare di molti scritti danteschi, giunge ora a una nuova tappa, segnata dal suo quinto libro: Voce dei verbi, edito, come i tre precedenti, dall’editore Scorpione.
A dieci anni di distanza dal precedente, Di Taras i canti, volume incentrato sul ricchissimo patrimonio storico archeologico conservato nel Museo nazionale di Taranto, (e la plaquette Tempo profondo, dedicata a una riflessione spirituale) con quest’ultimo volume torna ai temi a lei cari o li recupera, avendoli selezionati tra i tanti da lei scritti tra gli anni Ottanta e l’anno in corso: il mondo degli affetti e il dramma del distacco (particolarmente intense sono le poesie dedicate al padre scomparso anni fa), il passare del tempo e il persistere dei valori fondamentali, i rimandi letterari, la realtà circostante, con i suoi problemi e le sue realtà.
È la stessa autrice a mettere in evidenza la struttura circolare della silloge “che inizia e si conclude nel nome della Madre, cioè della Vita, infinito ritorno, e che comprende, dopo la dedica, quasi un tentativo maldestro di poema, l’esposizione del tema ricorrente – la parola poetica che è passione dolore – e l’invocazione non alla Musa, ma allo Spirito pentecostale che dona parole fiammanti di poesia, nate dal silenzio, cioè dal raccoglimento interiore dell’anima che si fa cappella”.
Il titolo è un esercizio letterario che si estrinseca nella profilazione dei capitoli, che prendono tutti movimento dal verbo ordinatore e che rappresentano, di volta in volta, l’azione di fuggire, ricordare, finire, contemplare, leggere, lavorare, scrivere.
Intensi i versi sentimentali: “Dimmi, amore mio, dimmi che il tempo / ha spezzato i suoi perfidi orologi, / che abbiamo attraversato gli anni a guado / e bruciato le anagrafi e le date (…) che importa se mi guardi / dal colmo dell’estate? / Se disti da me lo spazio di una vita? …” (da “Voce del verbo contemplare” 13)
Altrettanto intensi, ma in maniera diversa, i versi della raccolta “Voce del verbo lavorare”, che hanno cenni di elaborazione più attualistica, fino al linguaggio quasi automatico di “Appunti per recensioni di spettacoli”: “…Malinconia, iridescenza di luci; / lo speaker, il garbo del giovane colto. / Il pianoforte è bianco (i nome dello sponsor) / ritorno d’immagine della compagnia… / Geometria dei suoni. / Veli e voli. Vedi Lorca. / Lorca? L’orsa. / Vaghe stelle dell’orsa io no credea… / Tre cartelle: sufficit. Domani h. 10…”.
La sua selezione, in un ampio ventaglio di composizioni scritte dagli Ottanta a oggi segue una logica narrativa precisa, ma lascia intravedere che presto altre raccolte potranno apparire.