Mons. Gioia: “Dai diari di Alberico Semeraro traspare la luce mistica di un santo”
Il 19 gennaio prossimo, come abbiamo già riportato nei giorni scorsi, si aprirà la causa di beatificazione di monsignor Alberico Semeraro, che fu vescovo di Oria per trent’anni dal 1949 al 1978 e fondatore della congregazione delle Oblate di Nazareth. L’annuncio alla diocesi è stato dato in occasione della tavola rotonda per la presentazione del volume “Il pastore mite” scritto da monsignor Francesco Gioia, già arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche, ma è stato proprio il lavoro documentale realizzato dall’arcivescovo Gioia, con gli auspici della Congregazione delle Oblate e la collaborazione di don Andrea Casarano, direttore dell’Archivio diocesano e ora postulatore della causa di beatificazione, a dar nuovo luce alla dimensione spirituale di un pastore noto per il suo attivismo ma che rivela ora grande profondità. Ne parliamo con lo stesso monsignor Gioia.
Lei insiste particolarmente sul concetto di “mitezza” che ha richiamato anche nel titolo. È quindi un aspetto fondamentale del suo carisma?
Lo descrivo sicuramente come una persona mite, con tutta l’estensione del termine “mitezza” che egli riversava in ogni sua manifestazione in ogni sua relazione. E la mitezza, lo ricorda Papa Francesco, è già condizione di santità. Però quando io ho scoperto il suo diario sono rimasto sorpreso perché c’è una discrepanza molto evidente nel suo modo di essere: tanto mite nel suo comportamento, anche fisico, tanto dilaniato spiritualmente nell’anima. Lui aveva la sensazione, come padre Pio, di non amare sufficientemente il Signore e questo gli creava una sofferenza intima incredibile, una tensione attraverso la quale si può ipotizzare di proporlo come esempio all’uomo del nostro tempo. Poi la Chiesa, nella sua saggezza e nella sua prudenza, deciderà se inserirlo tra i beati o meno. Certamente è un esempio che in una società come la nostra, così violenza in tutti i campi, dall’economia alla politica, che po’ dire molto, non solo a chi governa le comunità cristiane, ma anche a chi governa la società civile.
La sua intraprendenza ha lasciato delle eredità precise a noi?
Sì, infatti: oltre alla sua mitezza e al suo tormento mistico, aveva un grandissimo senso pratico. I suoi giovani hanno lasciato delle testimonianze molto belle, ricordando che nelle tasche della sua veste da prete si trovava di tutto: un paio di tenaglie, dei fili elettrici, chiodi… e quindi c’è questo apparente contrasto che però è segno di un impegno costante e attivo, nella sua missione di pastore e di uomo. Attraverso il diario si capisce senza alcun dubbio che è un uomo mistico, che incanta, affascina. Si rimane anche sorpresi perché dalla lettura delle sue pagine viene istintivo un esame di coscienza personale. Si è portati a chiedersi: se lui si sentiva così indegno come sacerdote e come vescovo, che dovrei dire io? Che dovremmo dire noi? Che siamo così distratti?.
Un raffronto, quindi, come pastore e come credente.
Sì, la sua dimensione pastorale, il suo amore totale per la sua missione, si percepiscono chiaramente attraverso la sua grande delicatezza, che traspare in tutti i suoi scritti, anche nelle sue lettere, che parlano in maniera molto evidente, in questo senso. Anche nella sua sofferenza, nei problemi che ha dovuto affrontare, e credo che si evinca chiaramente anche dal libro, egli è sempre consapevole e disposto ad accettare ogni difficoltà come una prova.