La scomparsa di Franco Sebastio, il magistrato che combattè l’inquinamento
La notizia ha colto tutti di sorpresa. Ma lui, Franco Sebastio, il procuratore della Repubblica noto per le sue inchieste sull’inquinamento, era ricoverato da qualche tempo per il male incurabile che lo ha portato via, martedì 10, all’età di ottant’anni. Non era mai andato a riposo, anche quando nel 2015, aveva dovuto lasciare la sua poltrona di procuratore della Repubblica di Taranto, per raggiunti limiti di età e nonostante la sua battaglia per essere riconfermato ancora, nonostante i suoi 73 anni.
La sua carriera di magistrato era iniziata nel lontano 1969. Prima in Lombardia, a Gallarate, poi in Puglia, a San Pietro Vernotico, come pretore, prima del ritorno nella sua Taranto. Qui ha percorso tutti i gradini della sua carriera, prima alla guida della procura presso la pretura, poi come sostituto procuratore e, infine, come procuratore, prima aggiunto, poi capo.
Indimenticabile la battaglia che nel 1982 intraprese contro l’inquinamento dell’Ilva. Una battaglia la sua, che seguivamo quasi con meraviglia, da giovani cronisti, in una città ancora sedotta dall’ascesa dell’industria e illusa da investimenti che promettevano ancora sviluppi ma che in realtà erano già finiti da un decennio, alla fine dello scellerato raddoppio che segnò i futuro del territorio. A quel tempo, tra diretti e indiretti, i lavoratori dell’area industriale erano quasi quarantamila e sembrava persino assurdo che un pm si desse la pena di combattere l’inquinamento che solo alle associazioni più avvedute e agli abitanti dei quartieri vicini sembrava configurarsi come il pericolo più grave per la città. Ricordo le interviste ai giornali, le conferenze stampa nelle quali egli lamentava come gli strumenti legali per combattere l’inquinamento fossero quasi inesistenti e che lui doveva barcamenarsi con l’unica disposizione che vietava il getto di oggetti pericolosi. Che non gli impedì di fare della sua battaglia un simbolo per tutta la città.
Era solo l’inizio, perché Franco Sebastio da uomo tenace e sicuro di sé, si fece anche carico della lunga, impegnativa inchiesta sul mobbing, la pratica di mortificazione e persecuzione morale dei dipendenti non “collaborativi” (ricorderete la vicenda della Palazzina Laf, dove venivano confinati i lavoratori che per diversi motivi non piacevano alla proprietà) che i Riva intrapresero in quello sciagurato 1995. L’anno che aveva segnato la loro acquisizione dell’Ilva, che solo pochi anni prima aveva preso il posto dell’Italsider e che era stata risanata, prima di essere reimmessa nel calderone impietoso del tangentismo che ne aveva segnato il nuovo declino e la conseguente imposizione assurda, da parte dell’Unione Europea, di privatizzarla a tutti i costi. Dopo la condanna dei dirigenti aziendali, arrivata qualche anno dopo, Sebastio avviò altre inchieste ancora più clamorose, come il sequestro delle cokerie risultate pericolosissime e il loro abbattimento, mentre, quando fu avviata dal pm Todisco la grande inchiesta “Ambiente scvenduto” che ha portato nei mesi scorsi alla condanna, in primo grado, dei Riva e di politici e dirigenti, con pene pesantissime, sedeva sulla poltrona di procuratore cape, al terzo piano del Tribunale. Nel 2015, come abbiamo ricordato, fu costretto a lasciare la magistratura, ma, assetato di impegno e di vita come era lui, passò alla politica attiva. Fu tra i più tenaci oppositori della riforma costituzionale promossa dal governo Renzi e, dopo il successo di quel 4 dicembre, decise di candidarsi, nel 2017, alla poltrona di sindaco, alla guida di un raggruppamento di sinistra, designato da Rifondazione. Il risultato fu, alla luce del suo impegno per la città, deludente: prese solo il 9% dei voti, così al ballottaggio andarono Melucci, poi eletto sindaco, e la candidata dalla destra, Baldassarri. Lui venne eletto consigliere ma commise l’unico errore, dettato dall’inesperienza politica: quello di accettare l’incarico di assessore alla Cultura e alla Legalità, che gli venne revocato pochi mesi dopo lasciandolo fuori dal Consiglio comunale e di fatto escludendolo dalla vita politica. Ma neanche questo segna la sua resa: egli accetta di diventare prima presidente dell’organo di vigilanza della società Ladisa, poi presidente del cda. Come tale diviene, per poco tempo, amministratore del “La Gazzetta del Mezzogiorno”, nel periodo di gestione della Ladisa.
Sono solo i passi fondamentali di una vita che è legata a doppio filo con quella della città. La vita di un uomo acuto, ironico, del quale ricordiamo le interviste precedute da interminabili colloquio preparatori, nei quali egli sembrava cercare la verità assieme ai suoi interlocutori, il gusto un po’ sornione del disvelamento, della rappresentazione della verità, appunto, che lo ha segnato per tutta la vita.