Dopo trenta anni, vince il metodo Falcone
Sono tante, troppe le cose dette e scritte da tutti, nessuno escluso, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, capo della mafia nell’area di Trapani, uno dei boss più potenti di tutta Cosa nostra, arrivato a esercitare il potere oltre i confini della provincia. Da trenta anni era nella lista nazionale dei latitanti più ricercati e, dal 2008, nell’elenco informale dei dieci latitanti più ricercati al mondo, pubblicato ogni anno dalla rivista americana Forbes. Non una latitanza classica, alla Salvatore Riina o alla Bernardo Provenzano, cioè da sepolti vivi, ma una latitanza aurea, dorata, disinibita, disinvolta. Tanto da far dire a una anziana conoscente: “In questi trenta anni, ha trascorso i suoi compleanni, i suoi onomastici, le festività di Natale e di Pasqua fuori dal carcere. Altre persone, per colpa sua, nella tomba e quel povero bambino, ucciso e sciolto nell’acido, neanche la tomba toccò!”. Ed è tutto vero. Chi vive a una distanza di anni luce da quel contesto, da quell’ambiente vitale, non può cogliere cosa significhi operare in un territorio non disposto a collaborare con lo Stato, in cui parlare con i carabinieri dà il marchio dell’infamia, in cui il familismo è pervasivo e costituisce una delle colonne su cui si basa il patto sociale. Prima di lui, di Diabolik, di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano era nota a tutto il mondo per il parco archeologico di Selinunte, il più esteso del continente europeo: è quel che rimane di una antica città greca fondata nel 650 avanti Cristo e fiorente fino alla conquista di tutto il suo territorio da parte dei dominatori romani. È probabile, è molto probabile che se non ci fosse stato di mezzo un tumore, la latitanza del capo della mafia sarebbe potuta continuare ancora per diverso tempo, anche se la storia non si scrive con i qualora e con i se. Ma il fatto è vero, la cattura di Matteo Messina Denaro lunedì mattina c’è stata, la sua trentennale latitanza è proprio terminata e tutto ciò ha avuto una risonanza mondiale. Alcuni osservatori, nei giorni scorsi, hanno dichiarato che l’arresto di Messina Denaro è paragonabile ai titoli di coda per Cosa Nostra 2.0 ma forse non ci si è accorti che lui, Diabolik, è stato quello che ha avviato il fenomeno mafioso verso la nuova fase, verso Cosa Nostra 3.0. Tre giorni fa, il deputato Federico Cafiero de Raho, ex procuratore della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, nel corso del dibattito sulla giustizia, ha dichiarato che le mafie sono pervasive e sono presenti e forti nel loro altrove e sono cioè esondate nel centro e nel Nord Italia. Una denuncia che, peraltro, dimostra che la lotta alla mafia è stata fin qui condotta in modo inefficace. Una lotta per teoremi, infrantisi nelle insufficienze probatorie, e che ha determinato clamorosi processi risoltisi in un nulla di fatto. È necessario ribadire a onore del vero che i magistrati della Procura di Palermo, che coordinava l’indagine, hanno lavorato nel massimo silenzio, ben lontani dalle telecamere, dai microfoni e dai taccuini dei giornalisti, radunando le informazioni che venivano loro fornite dai carabinieri del raggruppamento operativo speciale. Un metodo ben conosciuto dagli uomini della procura palermitana, in quanto vi fu introdotto da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino e che si fonda su un elementarissimo binomio: lavoro e intelligenza. Giorni e giorni a studiare sui documenti, sugli incroci di notizie, sui riscontri positivi e negativi, uno sforzo singolare e non comune che condusse al maxiprocesso di Palermo e alla condanna nei tre gradi di giudizio di poco meno di quattrocento mafiosi, tutti destinati al regime carcerario previsto dall’articolo. Uno sforzo del genere non si è mai ripetuto. Lo stesso binomio segna il sistema di indagine dei carabinieri del raggruppamento operativo speciale, che nasce sulle ceneri del nucleo speciale antiterrorismo istituito presso la Legione Carabinieri di Torino, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Quindi una felice intuizione istituzionale, non sempre molto gradita in giro. Ciò che interessa ora è che, proseguendo nelle attività investigative questi magistrati, lontani da facili pubblicità, da conferenze stampa e da progetti di carriera politica, riescano rapidamente a ricostruire la mappa delle complicità, mafiose e non, concretizzatesi intorno al capo appena catturato e a disarticolare così ciò che resta dell’antica feroce organizzazione. In conclusione, la vera strategia antimafia ha vinto sul campo l’antimafia delle parole. Per oggi e per il futuro, che riguarderà l’Italia intera, c’è da sperare e da esigere che questa lotta sia continuata sul solco delle vittorie fin qui ottenute. In onore delle numerose vittime lasciate sul terreno. Soprattutto di quel bambino, Giuseppe Di Matteo, di nemmeno tredici anni, morto strangolato e il cui corpo non fu mai ritrovato perché venne disciolto in un fusto di acido nitrico.