Elezioni regionali: le ragioni dell’astensione
L’impressionante crollo della partecipazione elettorale nelle regionali di Lombardia e Lazio è stato già praticamente archiviato. Il grido d’allarme per il fatto che in due Regioni-chiave l’affluenza alle urne si fosse arrestata poco sopra o poco sotto il 40% (il che vuol dire che una larga maggioranza di elettori è rimasta a casa) dopo la chiusura dei seggi si è affievolito nel giro di 24-48 ore e oggi è di fatto un tema solo residuale nel dibattito pubblico. Purtroppo negli anni ci si sta assuefacendo all’idea che a votare vadano sempre meno cittadini. Per stare alle elezioni storicamente più partecipate, quelle per il Parlamento, nel 2006 l’affluenza era stata dell’81,8%, nel 2008 dell’80,51%, nel 2013 del 75,20%, nel 2018 del 72,93%. Quest’ultimo dato, comunque negativo, segnalava un rallentamento del calo che aveva suscitato qualche speranza. Ma nella tornata dello scorso 25 settembre – forse ce ne siamo già dimenticati – l’affluenza è precipitata al 63,91%, il dato peggiore da quando esiste la Repubblica. Gli studiosi di statistiche elettorali hanno rilevato che si è trattato di uno dei dieci maggiori cali di partecipazione tra una consultazione e l’altra nell’Europa occidentale dal 1945 a oggi. Ecco perché l’astensionismo record nelle ultime regionali non solo non può essere derubricato a episodio locale, ma non è nemmeno un fulmine a ciel sereno riconducibile soprattutto a circostanze eccezionali.
Peraltro esso dimostra come il rimedio non possa essere cercato semplicisticamente nella modifica dei meccanismi istituzionali ed elettorali. Il sistema delle Regioni – pur con qualche differenza tra l’una e l’altra – è fortemente presidenzialista e maggioritario. Ma se non ci fosse stata la possibilità di esprimere preferenze il crollo dell’affluenza sarebbe stato ancora più vistoso. Ovviamente non si vuole negare la rilevanza degli assetti istituzionali e dei sistemi elettorali così come l’opportunità di qualche ponderata riforma in questo campo. Si vuole piuttosto sottolineare come agiscano, talvolta in misura prevalente, fattori di altro tipo. Senza attingere in questa sede a considerazioni di natura antropologica e sociologica, ma rimanendo nella sfera più strettamente politica, risulta determinante l’offerta che viene presentata alla scelta degli elettori. Inutile girarci intorno, sono i partiti il fulcro – nel bene e nel male – del meccanismo alla base della nostra democrazia. E’ al loro livello che il meccanismo si è inceppato. Leaderismo e polarizzazione non hanno reso più dinamico il “gioco” democratico, semmai hanno avuto l’effetto contrario, bloccando i processi di rinnovamento dal basso e provocando una volatilità di consensi che dà soltanto l’illusione del movimento e non consente progettualità lungimiranti.
La questione riguarda in modo macroscopico i partiti d’opposizione – la cui incapacità di proporre un’alternativa chiara e competitiva si sta ripercuotendo negativamente sull’intero sistema – e investe anche i “vincenti”, che hanno tutto il diritto di governare ma che non possono non tenere conto di avere alle spalle solo il voto di una minoranza, complice proprio il boom dell’astensionismo. E questo è un elemento di debolezza anche sulla scena internazionale. Un reciproco riconoscimento tra gli schieramenti, all’insegna del rispetto e senza confusione dei ruoli, sarebbe certamente nell’interesse del Paese e agli occhi dei cittadini potrebbe favorire un recupero di credibilità. Ma al momento ci sono soltanto timidi segnali in questo senso, soverchiati da altri di segno contrario.