Editoriale

Le ragioni storiche dell’inverno demografico

(Foto ANSA/SIR)
17 Apr 2023

di Emanuele Carrieri

L’inverno demografico, provato e comprovato dall’Istituto nazionale di statistica in questi giorni, era ampiamente annunciato e discusso da almeno venti o forse anche trenta anni. Se ne parla ancora oggi sui maggiori rotocalchi dedicati all’approfondimento della attualità. La gran parte degli stati dell’Europa occidentale sono predisposti a commettere un suicidio, il suicidio demografico: aumenta la durata della vita, ma diminuisce il tasso di natalità, molti paesi non hanno un numero sufficiente di giovani per rinnovare le loro popolazioni e fronteggiare il peso economico di una popolazione invecchiata. Nel nostro Paese la natalità continua a decrescere: nel 2022 i nati sono scesi, per la prima volta dall’Unità, sotto la soglia delle quattrocento mila unità, attestandosi a 393 mila. È quanto viene a galla dal nuovo report dell’Istat “Indicatori demografici. Anno 2022”, che si sofferma anche su diversi aspetti, fra i quali la speranza di vita, la mortalità, i movimenti migratori. Naturalmente si è aperto immediatamente il dibattito, con l’indispensabile conclusione che in Italia non nascono bambini perché mancano le strutture per il sostegno, innanzitutto economico, delle famiglie, e con una inesauribile penalizzazione del già pesante carico femminile. Tutto vero, verissimo. Si citano, a tale proposito, le politiche demografiche della Francia, che è arrivata a invertire la tendenza con molti e incisivi interventi a sostegno per le politiche familiari. Di nuovo, tutto vero, verissimo. Ma forse ci sono cause più profonde sulle quali sarebbe indispensabile una ulteriore riflessione. Basti pensare che, non solo, nel nostro Paese, nascono pochi bambini, ma va anche aggiunto che una quota considerevole dei giovani più intraprendenti, e probabilmente più competenti nel loro ambito, emigrano. Solamente in Gran Bretagna, che non è un paese in soddisfacenti condizioni economiche, sono emigrati negli anni più recenti almeno centomila giovani italiani. Nascono pochi bambini e le eccellenze emigrano: una situazione nazionale molto distante dall’essere soddisfacente. In più, come se tutto ciò ancora non fosse sufficiente, oltre tre milioni di giovani oggi non lavorano e nemmeno studiano. Si indicano molto spesso la Francia e i francesi, che fanno più figli, non solo perché ci sono più asili nido, ma anche perché credono nel futuro del loro Paese. Per ragioni storiche per prima cosa: perché sono uno stato pressoché unitario, in continuità tutt’oggi da più di mille anni, con, in mezzo, una rivoluzione che ha cambiato i destini del mondo. I disordini sociali di queste settimane per la riforma delle pensioni e la determinazione dell’esecutivo nel perseguirla, mettono in luce la conflittualità grintosa del confronto politico nel paese. La Francia è l’unico stato europeo da permettere al suo presidente in carica di andare in Cina da Xi Jinping, venendo trattato alla stregua di una potenza “alla pari”. Ma questa è un’altra storia. Detto per inciso: ben diverso è stato il trattamento riservato a Ursula von der Leyen, solamente presidente di una unione di stati ma non ancora realmente un’unica entità giuridica. Confrontando Italia e Francia, a questo punto la domanda sorge spontanea: nella popolazione italiana c’è il medesimo, sviluppato senso di volontà di affermazione nazionale nel lungo periodo? Sorgono diversi dubbi, perché, nella nostra gente, si percepisce un senso di rassegnazione, nonostante le eccezioni. E l’azione del governo attuale non sempre aiuta. Il rapporto più importante che abbiamo è quello con l’Europa ma si percepisce un rapporto pieno di diffidenze e solo una politica di rivalsa, se non di vero e proprio risentimento. È vero che di fronte alla massiccia immigrazione delle settimane più recenti, l’Italia non è stata aiutata, come avrebbe dovuto. Ma, nell’ultimo mezzo secolo, tutta l’Europa è stata invasa da un’ondata di immigrazione, e tutti i paesi europei hanno avuto la propria parte: la Francia con l’Algeria, la Spagna con il Marocco, la Germania con un milione di siriani nel 2015, oggi la Polonia con i profughi dall’Ucraina. Per non parlare del piccolo Belgio, che oggi ha una popolazione a prevalenza numerica musulmana. Il problema dell’immigrazione sarà il grande problema dell’Europa nell’immediato futuro. Sarà meglio rassegnarsi. Se non si interviene e subito sulle cause generanti e provocanti, l’Europa si riempirà di migranti economici, richiedenti asilo, rifugiati, profughi e migranti climatici: diverrà multietnica, multilingue, multirazziale, multireligiosa, multiculturale e, a dispetto delle prospettive e delle statistiche, forse anche multigenerazionale. Meglio affrontare tutto ciò con grande ottimismo ma anche con una lieve dose di egoismo, di comportamento interessato, considerata la insufficienza di una manodopera nazionale. Meglio educarsi e educare al rapporto con l’Altro. Questo arricchirà tutti. Indistintamente.

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