Presidenziali turche e guerra in Ucraina: quali scenari?
Dunque sarà ballottaggio. Il primo turno delle presidenziali turche consegnano Erdogan al 49,5% dei suffragi, lo sfidante Kliçdaroglu al 45%. I sondaggi recenti avevano già prenotato l’appuntamento del 28 maggio, ma il risultato di domenica scorsa ha capovolto il pronostico sull’ordine di arrivo.
Erdogan ha realizzato un’importante rimonta, viste le rilevazioni che a fine marzo lo davano ben al di sotto del 40%, penalizzato dalle polemiche sulle risposte al sisma di febbraio, dall’inflazione e dalla disoccupazione: temi cavalcati da Kliçdaroglu, leader del Partito popolare repubblicano (Chp) e candidato della coalizione a sei dell’Alleanza della Nazione.
Rileva comunque il dato di un parlamento (eletto contestualmente domenica) controllato dall’Alleanza popolare, la coalizione maggioritaria guidata dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdogan. Fermi restando i poteri del governo nel presidenzialismo, laddove il ballottaggio incoronasse Kliçdaroglu, questi si troverebbe a svolgere un mandato al cospetto di un’assemblea ben poco collaborativa. Inoltre la concentrazione di partiti laici a sostegno dello sfidante è molto eterogenea, coprendo un ventaglio di posizioni (socialdemocrazia, nazionalpopulismo kemalista, autonomismo curdo) omologate più dal desiderio di spodestare Erdogan che da una coerente piattaforma programmatica, prefigurando un ipotetico governo soggetto a continue contrattazioni interne.
Soprattutto, l’esito del ballottaggio potrebbe avere importanti ripercussioni sulle incandescenze internazionali. Se non altro perché lo sfidante vanta lo sponsor Usa, dichiarandosi più fedelmente atlantista di Erdogan, che ha perseguito l’interesse nazionale con la sovrana disinvoltura di un “battitore libero” nel selezionare avversari e sponde a geometria variabile.
Eppure Kliçdaroglu ha condotto la sua campagna concentrandosi sulla politica interna. Per quella estera non si prefigura un cambio di rotta sugli obiettivi. La stessa dottrina della Patria blu, con cui la Turchia si promuove a egemone mediterraneo (nel triangolo terracqueo tra Egeo, Nordafrica e cresta settentrionale del subcontinente arabico), non è oggetto di contestazione. Non solo perché i successi esteri di Erdogan fanno molta presa sull’opinione pubblica nazionale, ma anche perché essi si fondano su piani di lungo periodo la cui matrice si deve agli apparati militari, perdurante nerbo kemalista dello stato turco. Pertanto l’eventuale passaggio di consegne non annuncia svolte in campo strategico. Il cambiamento però potrebbe interessare l’ambito tattico, determinando profondi risvolti geopolitici, militari ed economici sulla guerra in Ucraina, i cui effetti si dispongono a ipotecare il futuro globale.
Sinora Ankara ha scelto il chiaroscuro, condannando l’invasione e fornendo armamenti a Kiev, ma restando partner di Mosca per ricavarne profitto: la distensione con Siria e Iran, le azioni in Kurdistan, la presenza in Libia, la vertenza cipriota con Atene, la penetrazione economica in Asia centrale, la trasformazione dell’Anatolia in hub del gas da smistare a ovest. Ma, nonostante l’ambiguità, la Turchia ha offerto uno spazio di confronto multilaterale, come dimostrano gli accordi sui corridoi del grano. Anziché esasperare sulla testa del Cremlino la sindrome dell’accerchiamento, fomentando i falchi verso la guerra totale ad “alzo zero”, la sua neutralità utilitaristica si è prestata a “foro di alleggerimento” dello schieramento atlantista. E soprattutto a canale di dialogo la cui presenza, ancorché solo potenziale, si rende tipicamente fondamentale quando l’oltranzismo delle parti in conflitto, con acredine o studiato garbo, respinge qualsiasi offerta di mediazione, ostentando l’equivalenza tra pace e vittoria senza sconti.
Dalla riconferma di Erdogan alle urne ci si attende la continuità di tale postura. Ma lo stesso scenario potrebbe darsi anche laddove, vincendo, Kliçdaroglu reputasse conveniente nell’interesse turco proseguire sul tracciato.
Ben altro scenario si avrebbe se questi (avendone agio e forza) calcolasse più remunerativa un’assertività allineata al registro antirusso della Nato, considerando così di guadagnare ad Ankara la palma di primo mandatario Usa nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Non è certo che sia questo il modo giusto per aggiudicarsi simile ruolo, posto che Washington sappia valutare il rischio di contrasti tra la Turchia e altri gregari che, come la Francia, vantano interessi sulle rive egee e nordafricane. Ma Kliçdaroglu potrebbe essere solleticato dall’opportunità di imbottigliare la flotta russa nel Mar Nero, assegnando alla marina turca il controllo del Mediterraneo orientale, ovvero di liberarsi di Mosca per risparmiarsi le transazioni con Damasco e Teheran.
Le ipotesi pro e contro questi due scenari sono diverse. E a favore del primo pesa la propensione di ripiego dell’elettorato di Ogan (terzo votato, al 5%) per il conservatorismo sociale dell’Akp. La partita del 28 maggio resta aperta, ma gli auspici dei governi atlantisti per il dopo-Erdogan, nel soppesare con realismo le conseguenze, potrebbero trovare ragioni per non entusiasmarsi del tutto, ponendo mente ai contraccolpi escalativi che il secondo scenario potrebbe irradiare in Ucraina, e forse oltre.