“Pastore e parroco instancabile”
Un ricordo di don Donato Palazzo
Queste righe per ricordare don Donato Palazzo, tornato alla casa del Padre a 91 anni il 26 maggio scorso, nella solennità di San Filippo Neri. Come il “santo della gioia”, don Donato era un presbitero pieno di zelo apostolico e di fervore nel servire Dio. Come ha fatto per 39 anni nella sua parrocchia che è stata anche la mia: il Cuore Immacolato di Maria, comunità e cuore pulsante del quartiere Tre Carrare Battisti, zona cuscinetto tra la “Taranto bene” del Borgo e la periferia più estrema. Una zona abitata da famiglie operaie e piccolo-borghesi, che si ritrovavano la domenica alla Chiesa “buchi buchi” (come era soprannominata per via delle sue facciate piene di finestrelle) e partecipavano alla messa delle 11.30 celebrata da Don Donato, subito dopo quella delle 10 dedicata ai bambini del catechismo. Accanto a lui un manipolo di ragazzi cresciuti nella fede e guidati da quel parroco austero, ma anche ironico e paterno. Don Donato era così, almeno nei ricordi di un bambino che, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, aveva scelto la parrocchia come luogo di socializzazione. Non solo servendo la messa, ma frequentando un minuscolo oratorio che noi ragazzi chiamavamo “la saletta”: uno stanzone con un tavolo da ping pong, un biliardino e qualche sedia per parlare, ridere, sfotterci e che ancora ricordiamo quando di rado ci ritroviamo, ormai adulti e con vite diverse e distanti. Perché, quel tempo dell’infanzia e dell’adolescenza è stato bellissimo, fecondo, autentico e capace di farci crescere come uomini e cristiani. Se oggi io sono quello che sono, lo devo anche a quei momenti, a don Donato e al suo totale farsi carico per quella parrocchia che ha sempre sentito “sua” anche quanto l’età non glielo ha più formalmente consentito. E insieme a lui ricordo i suoi sacerdoti collaboratori, vicari e vice parroci che lo hanno accompagnato restando sempre un passo indietro, perché “il parroco resta il parroco”. Come don Paolo Oliva, don Luigi Angelini e don Michele Matichecchia (questi ultimi due da tempo tra le braccia del Signore). E anche quando sono andato via da Taranto dopo il liceo, don Donato ha continuato ad esserci, aggiornandosi sul mio percorso universitario e professionale. «È orgoglioso di te – mi diceva mia mamma quando lo incontrava a salutava – per gli articoli che scrivi su Avvenire e per il tuo percorso accademico». Non mi resta molto altro da dire: la memoria si confonde con le emozioni e rischia di essere approssimativa. Voglio, però, ricordare tre momenti che hanno incrociato in modo diverso la vita di don Donato e sono stati contraddistinti dalla grazia della sua presenza: il primo è l’organizzazione, in quanto cappellano, della visita di Paolo VI° allo stabilimento siderurgico Italsider la notte santa del 24 dicembre del 1968. Fu in momento in cui si scrisse un pezzo di pensiero sociale cristiano incarnato nell’umanità. Papa Montini, nella sua omelia, sottolineò, infatti, come «la separazione fra il mondo del lavoro e quello religioso e cristiano, non esiste, o meglio non deve esistere».
Il secondo è il funerale di Sandra Stranieri (che concelebrò nel dicembre 1991), giovane parrocchiana vittima innocente di mafia, uccisa da un proiettile vagante durante una sparatoria tra criminali.
Il terzo episodio è personale: la visita inaspettata che fece nel 2017 a mia nonna pochi giorni prima della sua scomparsa.
Don Donato è stato tutto questo, cioè è stato semplicemente un prete: illuminato da quella che il teologo Sergio Lanza chiamava “pastoralità”; ossia da quell’agire rispetto al contesto sociale che si configura come incarnazione dell’esperienza di fede evangelica. Su questa terra le preghiere certamente non gli mancheranno.
Post Scriptum: i ricordi, i riferimenti e i nomi riportati in questo scritto sono frutto dei miei ricordi che risalgono a più di 30 anni fa. Chiedo scusa a chi leggerà per eventuali imprecisioni ed errori.
* sociologo, Pontificia Università Lateranense