L’implosione dei salvataggi
Giovedì pomeriggio, dal quartier generale della United States Coast Guard, la guardia costiera degli Stati Uniti, è stata diffusa una nota – stampa con cui è stato annunciato che i frammenti del Titan, il mini sommergibile disperso in mare il 18 giugno, erano stati individuati e che le cinque persone a bordo erano morte. Una sorte annunciata: negli anni scorsi, alcuni ex dipendenti della Ocean Gate e numerosi esperti avevano sollevato molti dubbi sulla sicurezza del Titan, mai certificata da alcun ente marittimo. Si è scoperto nelle ore seguenti che la U.S. Navy, la marina americana, fin da domenica sera, aveva individuato il luogo e il momento del disastro ma, per non rivelare le capacità dei suoi sistemi di rilevazione segreti, aveva lasciato che il mondo si cullasse nell’illusione che il Titan fosse integro e soltanto incapace di comunicare, alimentando le speranze di un salvataggio tempestivo. Decine di navi e di aerei, americani, canadesi e francesi, avevano partecipato alla ricerca nella zona dove si trova il relitto del Titanic, da alcuni anni trasformato in attrazione turistica. I mezzi di comunicazione di massa di tutti i paesi del mondo hanno lanciato bollettini di aggiornamento, fantasticando di richieste di soccorso provenienti dagli abissi e raccolte dai sonar. Niente di tutto questo per il peschereccio Adriana, che il 13 giugno aveva lanciato vari sos dalle acque al largo del Peloponneso. La guardia costiera greca era arrivata a settanta metri dal natante sul quale erano stipati almeno settecento migranti ma non aveva fatto nulla. Dopo qualche ora il peschereccio si è rovesciato, un centinaio di disperati sono riusciti a salvarsi, gli altri sono sprofondati negli abissi. Ma quei migranti non hanno pagato duecentocinquantamila dollari a testa per provare in diretta l’emozione di vedere da vicino i resti del più noto naufragio del secolo scorso. Mentre nell’Atlantico era una mission impossible che prometteva situazioni emozionanti a beneficio delle televisioni, nel Mediterraneo c’era da adempiere soltanto il dovere di soccorso imposto dalla legge del mare: molto, troppo banale, troppo noioso. Peccato che quei migranti non abbiano un nome, salvo quando le onde ne gettano il cadavere sulla spiaggia, come fu per Alan Kurdi, un bimbo di soli tre anni. Dei miliardari a bordo del Titan, invece, si sa tutto: chi erano, che facevano, cosa avevano fatto in precedenza, perché avevano voluto fare il viaggio che si è rivelato fatale. Nel 1912 il transatlantico Titanic, nel suo viaggio inaugurale, cozzò contro un iceberg e colò a picco. In quella circostanza, la classe di provenienza di ciascun passeggero fu uno degli elementi che determinarono la possibilità di salvarsi o meno: i passeggeri di terza classe ricevettero l’ordine di rimanere sotto coperta e, in diversi casi, fu fatto eseguire sotto la minaccia delle rivoltelle. Un quadro inumano, in apparenza lontano nel tempo, che ritorna oggi, come un monito, a illuminare di una luce abissale la vicenda dei quattro uomini intrappolati nel sottomarino da turismo, diretti a visitare proprio quelle vestigia del 1912. Di loro si sanno i nomi, le posizioni sociali, tutte le loro passate avventure. Sono definiti miliardari avventurieri, dato che sembrano praticare per diletto le aree estreme di cui l’umanità non ha ancora preso del tutto possesso: lo spazio e il mare. Sono gli stessi, in realtà, che hanno pagato un biglietto di prima classe per andare a fare un giro in orbita, e che adesso esplorano gli anfratti marini, forse anche con l’intento di dare uno sguardo, oltre che al Titanic, a quei fondali così ricchi di metalli che, già ora, sono contesi fra i gruppi minerari, sempre alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare. Difficile, infatti, che i magnati facciano qualcosa per puro gusto dello spettacolo o dell’avventura per l’avventura. Si viaggia nello spazio per saggiare la possibilità che, un giorno, ridotta la terra a un’immensa pattumiera, chi se lo potrà permettere possa governare da un pianeta artificiale in orbita o vivere nelle e delle ricchezze ancora immense e immerse negli oceani. E per salvare queste persone, che, prima di tutto, sono persone e come tali vanno salvate, ecco che sono mobilitati i mezzi necessari, senza risparmio di risorse, trovando e attuando forme di coordinamento fra marina, aviazione, di parecchi paesi. Uno sforzo apprezzabile, che si spera si replichi nel Mediterraneo, non soltanto perché saranno salvate centinaia di vite umane, ma anche perché verrà dimostrata la forza della volontà politica se si mette al centro dell’azione comune un obiettivo condiviso. Ecco allora che irrompe l’analogia vertiginosa e anche questa, almeno per certe coscienze, abissale: come mai neanche una parvenza di azione di salvataggio è stata fatta per i seicento stivati nel peschereccio colato a picco al largo delle coste greche? Forse perché di queste persone, di queste vite come le nostre, con pari dignità e pari diritto alla felicità, non si sanno nemmeno i nomi, tranne qualche fantasmatica identità che appare tuttavia sfocata, come se guardata attraverso l’acqua che li ha inghiottiti? Quando c’è la volontà di salvare non si bada a spese, si trovano i fondi, si mobilitano le tecnologie, si superano le barriere politiche. Non è forse questo l’impegno che le Nazioni Unite hanno preso tanti anni fa, impegnandosi, tutte insieme, a lottare contro la povertà, contro il cambiamento climatico, per favorire l’accesso di tutti a tutti i diritti umani di base? Se la distanza fra pesi e misure si allunga più del dovuto, la corda della solidarietà di specie si spezza, e qualcosa ci dice che la specie umana governa questo pianeta solo perché è l’unica in grado di aiutarsi nella necessità.