A Mottola ritorna dopo la pandemia la “Festa di San Pietro”



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“Mi sento il piombo”. A coniare l’espressione è Chiara Castellini, ragazza di 25 anni con una malattia rara, la miastenia grave, caratterizzata principalmente da una stanchezza patologica che può rendere estremamente difficili le semplici attività quotidiane. Chiara è la protagonista del video “Espressioni rare: quante ne sai?”, l’esperimento sociale realizzato da Omar – Osservatorio malattie rare in partnership con Ciaopeople e Fanpage.it, partner editoriale, e con il contributo non condizionante di Alexion AstraZeneca Rare Disease; primo tassello di una campagna di comunicazione sulla miastenia grave volta a sensibilizzare le persone su questa patologia troppo spesso “invisibile”.
Nel corso dell’esperimento sociale, sintetizzato in un breve video destinato a fare il giro del web, sono state intervistate circa 10 persone: nessuna di loro ha ipotizzato che l’espressione “sentirsi il piombo” fosse relativa al vissuto di una persona con una malattia rara.
“Ho ideato questa espressione, ‘sentirmi il piombo’, perché effettivamente mi sento come se avessi del piombo attaccato alle braccia e alle gambe, una cosa davvero impossibile da spiegare agli altri. Non è una stanchezza normale, è un peso che ti trascina a terra e ti impedisce di vivere come vorresti: se mi lavo i capelli poi mi devo riposare per qualche ora, non è proprio semplice da far capire. La miastenia grave è una malattia rara neuromuscolare che comporta una disabilità invisibile: chi mi guarda non direbbe mai che sono malata – racconta Chiara –. Eppure lo sono eccome. Con la giusta terapia posso vivere una vita attiva, ma con delle limitazioni con cui devo convivere, per le quali sono necessarie delle compensazioni. A volte è difficile ed è giusto che lo si dica”. La miastenia grave (Mg) è una patologia autoimmune caratterizzata da una generale debolezza dei muscoli volontari. Se non correttamente diagnosticata, e quindi trattata, la miastenia è estremamente invalidante. C’è chi ha perso il lavoro, chi non riesce a occuparsi dei propri figli o a studiare, chi ha perso delle amicizie, chi una relazione importante. Obiettivo dell’esperimento sociale è quello di far conoscere la patologia, far comprendere come ci si convive e, dunque, lavorare sulla percezione della sua gravità.
Il Rotary International, la cui sede è ad Evanston negli Stati Uniti, sin dalle prime fasi dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha sostenuto tutte le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chiedevano e tuttora chiedono un immediato cessate il fuoco e il ritiro delle forze militari russe dall’Ucraina.
Questo è in linea con il profondo impegno del Rotary per la promozione della pace attraverso il dialogo e la risoluzione dei conflitti.
Il Distretto 2120 del Rotary di Puglia e Basilicata, in virtù della partnership con la Rotary Foundation, ha potuto programmare l’ennesimo intervento destinato a produrre ricadute positive sia sui rifugiati ucraini che sulla nostra comunità, sollevata da un importante impegno economico per fornire adeguata ospitalità.
Il Distretto 2120, nell’anno rotariano 2022-23, sotto la guida del governatore Nicola Maria Auciello e la commissione distrettuale ‘Rotary Foundation’, presieduta da Marco Giuseppe Torsello, sono riusciti a fare pervenire dalla sede centrale del Rotary International una cospicua sovvenzione per la risposta alle emergenze.
All’atto della presentazione dell’iniziativa distrettuale il governatore Auciello e il presidente Torsello hanno dichiarato che “fare del bene nel mondo è il motto ed il core business della Fondazione Rotary convinti come siamo che la costruzione di un mondo migliore passi attraverso la eliminazione di ogni forma di sofferenza, materia a cui il Rotary International riserva grande cura.”
La Rotary Foundation è nota nel mondo per aver assegnato oltre 350.000 borse di studio e per l’impegno quarantennale nella lotta per la eradicazione della poliomelite dal nostro pianeta. Ma non molti sanno che la sua missione, al cui servizio si impegnano 1.400.000 rotariani nel mondo, è quella appunto di portare avanti progetti umanitari che hanno come obiettivo il miglioramento della salute, il sostegno all’istruzione, l’accesso all’acqua potabile e l’alleviamento della povertà. La Fondazione ha il massimo indice di affidabilità in quanto da oltre quindici anni Charity Navigator, un’organizzazione indipendente che valuta la affidabilità e la qualità delle organizzazioni filantropiche, attribuisce alla Rotary Foundation il livello più alto di valutazione.
Ritornando sul tema del supporto ai profughi ucraini si segnala che il Rotary Club Taranto Magna Grecia operando in collaborazione con la Diocesi di Taranto che, per il tramite del Centro di accoglienza diocesano, ha un rigoroso protocollo per l’assegnazione degli aiuti alle famiglie ucraine rifugiatesi nel nostro territorio, donerà ai rifugiati 4.200€ in buoni pasto.
La consegna dei buoni pasto è in programma martedì 27 giugno alle ore 20 nel Centro di accoglienza diocesano ubicato in vicolo del Seminario 17 alla presenza dell’arcivescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro, del presidente del Rotary club Taranto Magna Grecia, Ermenegildo Ugazzi, e di una folta rappresentanza di soci rotariani.
C’è un nuovo partner per il progetto “La fabbrica della solidarietà”, l’inedito laboratorio di innovazione sociale che da oltre sette mesi vede collaborare sinergicamente il Terzo settore, la pubblica amministrazione e il mondo del profit, per l’integrazione e l’inserimento sociale di soggetti che vivono un disagio.
Le attività del progetto, infatti, sono rivolte a giovani, in età compresa tra i 13 e i 18 anni, in condizione di fragilità afferenti ai servizi sociali del Comune di Massafra – Ambito zonale Massafra, Mottola, Palagiano e Statte, nonché agli utenti delle strutture riabilitative psichiatriche gestite dalla Cooperativa Sociale Spazi Nuovi.
Al progetto, al quale hanno già aderito numerose aziende del territorio, ora si unisce il Nastrificio Meridionale di Martina Franca che, lunedì 26 giugno, ospiterà nel proprio stabilimento gli utenti del Centro Diurno Samarcanda di Massafra, gestito da Spazi Nuovi.
Questi, accolti dal personale dell’azienda, avranno così la possibilità di vivere un’esperienza particolare venendo a contatto e conoscendo questa importante impresa che, immersa nel verde della Valle d’Itria, da oltre quarant’anni opera nella produzione di accessori per l’abbigliamento.
È la prima attività dell’azienda nell’ambito del progetto ‘La Fabbrica della solidarietà’ promosso dal Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico Puglia e ammesso a finanziamento nell’ambito del programma regionale PugliaCapitaleSociale 3.0.
Il progetto, che vede tra i soggetti collaboratori anche Confindustria Taranto, il Comune di Massafra e la Coop. Spazi Nuovi, ha come obiettivo prioritario la promozione e lo sviluppo della cultura del volontariato, in particolare tra i giovani e all’interno delle imprese.
Il Programma delle attività progettuali intende concorrere al raggiungimento di obiettivi generali individuati nell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile che possa rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili.
A tale scopo con il progetto ‘La Fabbrica della solidarietà’ vengono realizzate, in collaborazione con le aziende della provincia di Taranto che hanno dato adesione, dei percorsi che favoriscano la partecipazione del personale ad attività di volontariato rivolte a minori ed adulti in condizione di fragilità.
L’adesione alle attività di progetto servirà ad accrescere il bagaglio di competenze ed esperienziale dei lavoratori oltre che favorire il contributo allo sviluppo del contesto sociale di appartenenza della stessa azienda, accrescendone pertanto il valore d’impresa.
Il partenariato del progetto “La fabbrica della solidarietà” comprende il Soccorso Alpino e Speleologico Puglia, in qualità di soggetto proponente, il Comune di Massafra, Confindustria Taranto e la Cooperativa Sociale Spazi Nuovi.
Il progetto “La fabbrica della solidarietà” è finanziato nell’ambito dell’Avviso PugliaCapitaleSociale 3.0 per gli enti di Terzo settore della Regione Puglia, assessorato al Welfare, diritti e cittadinanza, finalizzato allo sviluppo della cittadinanza attiva e alla promozione del welfare di comunità.
Una grande festa per celebrare ed assaggiare la regina delle tavole pugliesi, con l’obiettivo di far conoscere e valorizzare sempre di più il settore. Sarà l’uva da tavola di Grottaglie la protagonista della seconda edizione de “L’Uva Noscia”: la festa dell’uva da tavola si svolgerà il 28 e 29 luglio prossimi a Grottaglie (Taranto), nel Quartiere delle ceramiche e nel centro storico. Si inizia alle ore 20, ad ingresso libero. La manifestazione è organizzata da “Gli Amici della Fo’cra”, con il patrocinio della Regione Puglia e del Comune di Grottaglie e la collaborazione della Pro loco, di Awa Productions, di GrottOut e Il Simposio dello Ionio. Dall’area parcheggio di via Crispi, si snoderà un percorso per far conoscere, in esposizione, le migliori varietà di uva da tavola del territorio. Dolce, croccante e profumata, bianca, in diverse cultivar – come la tradizionale Victoria, eccellenza del territorio – ma anche rossa e nera; con o senza semi (le uve apirene, sempre più apprezzate dal mercato, per esempio la rossa Crimson, dal chicco corposo e allungato): i visitatori potranno apprezzare le novità del mercato agricolo e conoscere da vicino questo grande prodotto dei vigneti locali, per valorizzare una produzione fatta di conoscenze e competenze antiche, ma moderna nelle tecniche, nella commercializzazione e nella presentazione. Delle novità, delle opportunità e delle prospettive di questo settore agricolo, si discuterà in incontri tematici che saranno organizzati nelle due serate, alla presenza delle istituzioni, dei produttori e delle associazioni di categoria. Come lo scorso anno, è stato invitato al dibattito l’assessore regionale all’agricoltura Donato Pentassuglia e saranno presenti il sindaco di Grottaglie Ciro D’Alò, alcuni sindaci dei comuni vicini, l’assessore comunale all’agricoltura Alessia Piergianni, il consigliere comunale Giulio De Carolis (impegnato sul tema della promozione dell’uva da tavola), Rossella Cafforio, presidente dell’Associazione Gli Amici della Fo’cra. L’obiettivo è confrontarsi e fare rete, per promuovere sempre di più il prodotto e sostenere questa importante fetta dell’economia agricola. L’uva da tavola del territorio di Grottaglie è famosa in tutto il mondo e, proprio per la sua bontà e qualità, raggiunge ogni anno i mercati ed i consumatori italiani ed esteri, in particolare quelli del centro-Nord Europa. Nei prossimi 28 e 29 luglio, dopo il successo della prima edizione, torna a presentarsi tra gli stand della manifestazione “L’Uva Noscia”, attraverso varie iniziative. Oltre all’esposizione, infatti, ci saranno percorsi gastronomici, per gustare le varietà di uva e piatti della tradizione, ma anche innovativi, che avranno l’uva come protagonista: come le fave e verdure selvatiche, a cui si abbinano gli acini d’uva, oppure il risotto con uva da tavola realizzato dalle mani di una chef; sarà possibile inoltre assaggiare marmellate d’uva da tavola, dolci e altri prodotti realizzati con l’uva da tavola. Grande spazio alla musica e allo spettacolo. In particolare, nelle due serate ci saranno spettacoli musicali di musica balcanica, dj set live sul palco e lungo il percorso, che faranno ballare e cantare i visitatori; ospiti della prima serata, il 28 luglio, saranno invece i Nitrophoska e la cover band “The commercialisti”. Nella serata finale del 29 luglio, si terrà il concerto di Antonio Castrignanò e Taranta Sounds, grande talento musicale e voce, impegnato in un tour internazionale, che porterà a Grottaglie le sonorità della pizzica e della musica popolare, in un’esibizione che sarà un’esplosione di gioia, arte e musica. Ci saranno inoltre: street food, altri momenti musicali e di spettacolo, artisti di strada, un’estemporanea d’arte, una mostra fotografica ed un tour guidato nel centro storico e nel Quartiere delle ceramiche a cura delle guide della Pro Loco.
Per informazioni sul programma: Whatsapp al 3287051962;
pagina Facebook ed Instagram de “Gli Amici della Fo’cra”.
Venerdì 30 giugno, in Concattedrale, alle ore 19 l’arcivescovo mons. Filippo Santoro presiederà la solenne concelebrazione eucaristica per i cinquant’anni di sacerdozio del parroco della San Vito, di don Luigi Trivisano, di don Nino Borsci e di padre Gianni Zampini
I cinquant’anni di sacerdozio saranno festeggiati anche da don Nicola Frascella, parroco da 32 anni a San Vito, nato il 12 luglio del 1948 a Talsano da Giuseppe (dipendente del Comune) e da Beatrice (casalinga).
Il suo cammino vocazionale è iniziato soprattutto in famiglia, con i genitori praticanti e frequentanti l’Azione Cattolica; in particolare il sacerdote ricorda lo zelo nella preghiera della mamma (molto vicina in gioventù alle suore paoline) che nel mese di maggio tutte le sere animava la recita del santo rosario in casa, con la partecipazione di tutto il vicinato. Chierichetto nella parrocchia della Madonna del Rosario di Talsano, allora l’unica del quartiere, e attivo nelle varie branche dell’Azione Cattolica, in lui il parroco don Luigi De Filippis individuò immediatamente i segni della vocazione indirizzandolo, dopo accurato e paziente discernimento, verso il cammino sacerdotale. Eccolo dunque a frequentare il seminario minore di Taranto (allora in città vecchia, dove ora è la sede del museo diocesano) e poi quello di Mondovì, in provincia di Cuneo, assieme a don Nino Borsci, in anni di duro studio e di continua verifica della scelta fatta. In quel percorso è stato prezioso l’aiuto generoso degli educatori, del padre spirituale don Anacleto Rovea, del rettore mons. Giuseppe Moizo e del suo successore don Giovanni Barberis.
Il 30 giugno del 1973, finalmente il giorno dell’ordinazione, nella solenne celebrazione in Concattedrale presieduta dall’allora arcivescovo mons. Guglielmo Motolese insieme a don Nino Borsci e a don Luigi Trivisano; a partecipare all’evento anche una folta rappresentanza dei seminaristi di Mondovì assieme al rettore don Giovanni Barberis. Furono momenti straordinari e di grande commozione che don Nicola Frascella rivive con gioia e con un pizzico di malinconia pensando ad altri due sacerdoti che erano con lui in quella giornata e che ora non ci sono più: don Vincenzo Conserva e don Gianni Schettino.
Il suo primo incarico fu quello di vicario in Concattedrale, allora giovanissima comunità parrocchiale; successivamente per due anni egli operò agli Angeli Custodi, nell’estrema periferia del quartiere Tamburi. Dal 1976 al 1980 eccolo con il medesimo incarico al Cuore Immacolato di Maria, sotto la guida del recentemente scomparso mons. Donato Palazzo. Il tutto costituì un severo banco di preparazione per il suo primo incarico di parroco, affidatogli nel 1980 alla San Marco Evangelista di Torricella. Vi rimase fino al 1992 per poi essere nominato dall’allora arcivescovo monsignor Benigno Luigi Papa alla guida della comunità di San Vito, dove per 32 anni aveva esercitato il parrocato don Cataldo Vergine, improvvisamente deceduto e provvisoriamente sostituito dall’amministratore parrocchiale don Cosimo Spagnulo.
Il 4 ottobre del 1992 ci fu la cerimonia d’immissione canonica di don Nicola Frascella, con calorosa accoglienza dei fedeli di San Vito.
Attualmente la parrocchia conta circa 7.000 abitanti, che praticamente raddoppiano nel periodo estivo. Negli anni passati si è attivato don Nicola con varie iniziative per la cura delle anime a lui affidate, realizzando anche, negli spazi attigui alla chiesa, campi sportivi per l’oratorio e una struttura per la casa canonica, le aule per il catechismo e gli incontri dei vari gruppi.
Un consuntivo di questo lungo cammino sacerdotale? Risponde don Nicola: “Mi sento arricchito spiritualmente e umanamente della conoscenza della comunità, nella sua complessità e specificità, mai rifuggendo dal contatto con i singoli, per comprenderne i bisogni e venire opportunamente in aiuto come meglio ho potuto. Per tutto questo non posso che reputarmi soddisfatto, seppure ancora bisognoso di preghiere e di aiuto fraterno, rendendo continuamente gloria a Dio per quello che ha compiuto nella mia vita e in particolare i miei cinquant’anni di sacerdozio”.
Il 27 a Cimino e il 28 giugno in Villa Peripato, lo spettacolo itinerante dei Teatrini di Napoli
Giovedì 29 giugno in zona Gandoli-Santomay (Marina di Leporano), a due passi dal mare, alle ore 19 l’arcivescovo mons. Filippo Santoro, nel suo 26.mo anniversario di ordinazione episcopale, presiederà la solenne celebrazione eucaristica per l’inaugurazione della nuova chiesa di San Giovanni Paolo II, con consacrazione dell’altare. Si tratta di una delle pochissime al mondo dedicate all’amato pontefice polacco che ha traghettato la Chiesa nel terzo millennio e il cui apostolato è stato d’esempio per tutto il mondo cristiano.
Il tempio, dalla conformazione avveniristica, è stato edificato su progetto dell’architetto Angelo Trani e dell’ingegnere Gianfranco Tonti; l’aula liturgica ha una capienza di circa 350 posti ed è collegata direttamente con il piazzale antistante per permettere una maggiore partecipazione di fedeli; sono presenti anche opere di ministero pastorale costituite da aule multiple e multifunzione idonee per attività giovanili (ritiri, campi scuola ecc.) a disposizione di tutta la diocesi. Di notevole pregio sono le immagini sacre posizionate all’interno e quella di grandi dimensioni, sul sagrato, che raffigura San Giovanni Paolo II in atteggiamento accogliente, realizzate degli artisti del Centro Ave di Loppiano. A coronamento di tutto ciò, giardini e parcheggi per le auto.
Don Giancarlo Ruggieri, parroco di Leporano, da cui dipende la nuova chiesa (assieme a quella della Madonna delle Grazie), ci ha riferito che la santa messa sarà celebrata sperimentalmente solo nei giorni festivi alle ore 20.15.
Il suolo della nuova opera (riveniente dalla riconversione dell’ex colonia delle suore stimmatine, attiva dagli anni cinquanta agli anni ottanta) fu acquistato dall’allora arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa, agli inizi del 2000 e nel 2010 donato alla parrocchia. Appena giunto in diocesi, il nuovo arcivescovo mons. Filippo Santoro, nella prima visita alla parrocchia di Leporano, apprezzò le intenzioni del precedente parroco, mons. Pasquale Morelli, di costruire una nuova chiesa nella nota località balneare, mostrandosi soddisfatto anche del sito dove sarebbe sorta.
La prima pietra fu posta l’11 marzo del 2018. “Oggi la nostra comunità – riferì in quella circostanza don Pasquale – vive un evento storico. Si realizza un sogno, un desiderio, un bisogno che era nell’animo di molti e che non aveva ancora trovato realizzazione. Necessitavamo di un idoneo luogo di culto, dato che l’antica chiesetta di Gandoli dedicata alla Madonna delle Grazie risultava lontanamente sufficiente dal soddisfare le esigenze, soprattutto estive, del popolo di Dio, costringendoci a celebrare le messe festive e prefestive sul piazzale adiacente in modo da consentire la partecipazione di turisti e di residenti stabili”.
I lavori sono iniziati a gennaio 2018, con comprensibili ma molto contenuti ritardi a causa della pandemia. In tal modo si è anche raggiunto l’obiettivo di riqualificare un’area depressa e pericolosa, dando lustro all’intero tessuto urbano di Gandoli-Santomay..
Il contributo della Cei ha permesso di coprire il 75% dei costi totali per l’edificazione dell’intera opera.
Giovedì pomeriggio, dal quartier generale della United States Coast Guard, la guardia costiera degli Stati Uniti, è stata diffusa una nota – stampa con cui è stato annunciato che i frammenti del Titan, il mini sommergibile disperso in mare il 18 giugno, erano stati individuati e che le cinque persone a bordo erano morte. Una sorte annunciata: negli anni scorsi, alcuni ex dipendenti della Ocean Gate e numerosi esperti avevano sollevato molti dubbi sulla sicurezza del Titan, mai certificata da alcun ente marittimo. Si è scoperto nelle ore seguenti che la U.S. Navy, la marina americana, fin da domenica sera, aveva individuato il luogo e il momento del disastro ma, per non rivelare le capacità dei suoi sistemi di rilevazione segreti, aveva lasciato che il mondo si cullasse nell’illusione che il Titan fosse integro e soltanto incapace di comunicare, alimentando le speranze di un salvataggio tempestivo. Decine di navi e di aerei, americani, canadesi e francesi, avevano partecipato alla ricerca nella zona dove si trova il relitto del Titanic, da alcuni anni trasformato in attrazione turistica. I mezzi di comunicazione di massa di tutti i paesi del mondo hanno lanciato bollettini di aggiornamento, fantasticando di richieste di soccorso provenienti dagli abissi e raccolte dai sonar. Niente di tutto questo per il peschereccio Adriana, che il 13 giugno aveva lanciato vari sos dalle acque al largo del Peloponneso. La guardia costiera greca era arrivata a settanta metri dal natante sul quale erano stipati almeno settecento migranti ma non aveva fatto nulla. Dopo qualche ora il peschereccio si è rovesciato, un centinaio di disperati sono riusciti a salvarsi, gli altri sono sprofondati negli abissi. Ma quei migranti non hanno pagato duecentocinquantamila dollari a testa per provare in diretta l’emozione di vedere da vicino i resti del più noto naufragio del secolo scorso. Mentre nell’Atlantico era una mission impossible che prometteva situazioni emozionanti a beneficio delle televisioni, nel Mediterraneo c’era da adempiere soltanto il dovere di soccorso imposto dalla legge del mare: molto, troppo banale, troppo noioso. Peccato che quei migranti non abbiano un nome, salvo quando le onde ne gettano il cadavere sulla spiaggia, come fu per Alan Kurdi, un bimbo di soli tre anni. Dei miliardari a bordo del Titan, invece, si sa tutto: chi erano, che facevano, cosa avevano fatto in precedenza, perché avevano voluto fare il viaggio che si è rivelato fatale. Nel 1912 il transatlantico Titanic, nel suo viaggio inaugurale, cozzò contro un iceberg e colò a picco. In quella circostanza, la classe di provenienza di ciascun passeggero fu uno degli elementi che determinarono la possibilità di salvarsi o meno: i passeggeri di terza classe ricevettero l’ordine di rimanere sotto coperta e, in diversi casi, fu fatto eseguire sotto la minaccia delle rivoltelle. Un quadro inumano, in apparenza lontano nel tempo, che ritorna oggi, come un monito, a illuminare di una luce abissale la vicenda dei quattro uomini intrappolati nel sottomarino da turismo, diretti a visitare proprio quelle vestigia del 1912. Di loro si sanno i nomi, le posizioni sociali, tutte le loro passate avventure. Sono definiti miliardari avventurieri, dato che sembrano praticare per diletto le aree estreme di cui l’umanità non ha ancora preso del tutto possesso: lo spazio e il mare. Sono gli stessi, in realtà, che hanno pagato un biglietto di prima classe per andare a fare un giro in orbita, e che adesso esplorano gli anfratti marini, forse anche con l’intento di dare uno sguardo, oltre che al Titanic, a quei fondali così ricchi di metalli che, già ora, sono contesi fra i gruppi minerari, sempre alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare. Difficile, infatti, che i magnati facciano qualcosa per puro gusto dello spettacolo o dell’avventura per l’avventura. Si viaggia nello spazio per saggiare la possibilità che, un giorno, ridotta la terra a un’immensa pattumiera, chi se lo potrà permettere possa governare da un pianeta artificiale in orbita o vivere nelle e delle ricchezze ancora immense e immerse negli oceani. E per salvare queste persone, che, prima di tutto, sono persone e come tali vanno salvate, ecco che sono mobilitati i mezzi necessari, senza risparmio di risorse, trovando e attuando forme di coordinamento fra marina, aviazione, di parecchi paesi. Uno sforzo apprezzabile, che si spera si replichi nel Mediterraneo, non soltanto perché saranno salvate centinaia di vite umane, ma anche perché verrà dimostrata la forza della volontà politica se si mette al centro dell’azione comune un obiettivo condiviso. Ecco allora che irrompe l’analogia vertiginosa e anche questa, almeno per certe coscienze, abissale: come mai neanche una parvenza di azione di salvataggio è stata fatta per i seicento stivati nel peschereccio colato a picco al largo delle coste greche? Forse perché di queste persone, di queste vite come le nostre, con pari dignità e pari diritto alla felicità, non si sanno nemmeno i nomi, tranne qualche fantasmatica identità che appare tuttavia sfocata, come se guardata attraverso l’acqua che li ha inghiottiti? Quando c’è la volontà di salvare non si bada a spese, si trovano i fondi, si mobilitano le tecnologie, si superano le barriere politiche. Non è forse questo l’impegno che le Nazioni Unite hanno preso tanti anni fa, impegnandosi, tutte insieme, a lottare contro la povertà, contro il cambiamento climatico, per favorire l’accesso di tutti a tutti i diritti umani di base? Se la distanza fra pesi e misure si allunga più del dovuto, la corda della solidarietà di specie si spezza, e qualcosa ci dice che la specie umana governa questo pianeta solo perché è l’unica in grado di aiutarsi nella necessità.
Avete mai visto una partita del Taranto calcio con gli strumenti della tecnologia in campo? No. In serie C, non c’è Var né goal line technology. In questa stagione nessuno se n’è lamentato. Ma non si sono visti nemmeno errori clamorosi, come quelli che hanno portato alla sconfitta la nazionale italiana Under 21, contro la Francia, nella partita inaugurale dell’Europeo organizzato da Romania e Georgia – almeno un rigore e un goal negato agli azzurrini. La questione allora è emersa sollevando un polverone esauritosi solo in parte.
Nessuna novità nella fase a gironi. Ma a partire dai quarti, l’Uefa introdurrà il Var. La decisione è arrivata il giorno dopo il grave danno inflitto dal direttore di gara, l’olandese Allard Lindhout, sui calciatori allenati da Paolo Nicolato. Un’azione comunque tardiva. Perché la tecnologia, a lungo invocata, è diventata uno strumento imprescindibile sui campi di gioco, da assicurare in competizioni importanti. La stessa può prevenire ingiustizie ovvero non falsare l’esito delle partite giocate. Gli amanti del calcio romantico direbbero che sono belli anche gli errori… Pensiamo al goal di mano realizzato contro l’Inghilterra da Diego Armando Maradona (1960-2020). Era la ‘Mano de Dios’, diceva il Pibe de Oro. Mettiamo che sia stato un bene: la legge della compensazione, allora, quando il Var non esisteva, faceva sì che la squadra penalizzata dagli errori potesse essere poi risarcita in qualche modo. Ovvero che la fortuna girasse a proprio favore. Ciò accade in un campionato, in un lungo cammino, sportivo, come in quello esistenziale. Negare invece l’ausilio della tecnologia in alcune gare significa condannare a morte la squadra vittima della malasorte o della malafede.
Al di là degli errori, la Francia ha meritato di vincere, giovedì scorso: queste, nel post partita, erano state la parole oneste di mister Nicolato, comunque consapevole della buona prova offerta dai suoi giovani uomini. L’Italia era chiamata al pronto riscatto nel match contro la Svizzera. Come una finale da vincere ad ogni costo, per continuare a sperare nella qualificazione alla seconda parte del torneo. E il riscatto è arrivato nel modo più inaspettato. Infatti, dopo un primo tempo dominato, col risultato che sembrava messo in cassaforte (3-0 grazie alle reti di Pirola, Gnonto e Parisi), gli azzurrini hanno subito due goal in sei minuti restando fino al 90esimo col patema d’animo. La Svizzera ha confermato le proprie potenzialità. I tre punti conquistati rilanciano le ambizioni della stessa squadra di mister Nicolato. Che dopodomani ventotto giugno dovrà vedersela con la Norvegia, alla Cluj Arena di Cluj-Napoca. Oltre ad avere chance di passaggio, l’Italia potrebbe finire al primo posto del girone, qualora la Svizzera dovesse battere per 1-0 o 2-1 la Francia. Arrivare davanti ai transalpini sarebbe una bella rivincita per sanare l’ingiustizia della prima gara.