Vite ai margini tra sguardi alla Ken Loach e l’ironia irriverente di Zerocalcare
Nel panorama europeo, il britannico Ken Loach da oltre cinquant’anni presidia, con coerenza, un cinema di impegno civile che racconta i precari, i senza lavoro e l’orizzonte sociale dove sbiadiscono i diritti e dilagano gli affanni. Tra i suoi titoli più recenti i bellissimi e struggenti “Io, Daniel Blake” (2016) e “Sorry We Missed You” (2019). Sul suo tracciato molti autori offrono sguardi sulle zone d’ombra della nostra società. Due le novità: dal 5 luglio su Disney+ “Full Monty. La serie”, titolo che venticinque anni dopo il successo della commedia “Full Monty” (1997) riaccende l’attenzione sulle periferie dell’umano nel Regno Unito. A produrre gli 8 episodi il regista Uberto Pasolini (“Still Life”, “Nowhere Special”). Per l’occasione si ricompone il cast originario a cominciare da Robert Carlyle, Mark Addy e Tom Wilkinson. L’abbiamo vista in anteprima: intensa, dolente, esilarante e irriverente. Inoltre, da inizio giugno è su Netflix la nuova serie del fumettista Michele Rech in arte Zerocalcare “Questo mondo non mi renderà cattivo”, animazione che si rivolge a un pubblico adulto mettendo a tema le tensioni sociali di oggi, tra accoglienza migranti e dispersioni nelle dipendenze. Con stile acuto e caustico Zerocalcare direziona lo sguardo dove l’umanità è piegata. Il punto Cnvf-Sir.
“Full Monty. La serie” (Disney+, 05.07)
Nella stagione 1997-98 la commedia britannica “Full Monty. Squattrinati organizzati” (“The Full Monty”) diretta da Peter Cattaneo lascia un segno arrivando a correre per quattro Premi Oscar – vince nella categoria colonna sonora firmata Anne Dudley – e conquistando tre Bafta di peso: miglior film, attore protagonista Robert Carlyle e non protagonista Tom Wilkinson. Venticinque anni dopo il team ideativo-produttivo, in testa lo sceneggiatore Simon Beaufoy e il produttore Uberto Pasolini, come pure gran parte del cast originario hanno accettato di tornare sul set per raccontare cosa è accaduto ai celebri disoccupati di Sheffield, che per sbarcare il lunario si erano reinventati spogliarellisti.
La storia. Sheffield oggi. Nella caffetteria gestita da Lomper (Steve Huison) e dal compagno Dennis (Paul Clayton), si ritrovano puntualmente gli amici di sempre Gus (Robert Carlyle), Dave (Mark Addy), Horse (Paul Barber), Gerald (Tom Wilkinson) e Darren (Miles Jupp). Ognuno di loro barcolla nel proprio quotidiano tra problemi di lavoro, assistenza sanitaria o sfide educative. Esistenze ammaccate ma sempre con il sorriso, pronti ad aiutarsi l’un l’altro…
Strappa risate ma anche riflessioni dense di dolcezza e amarezza “Full Monty. La serie”. I protagonisti, tutti goffi, caotici e persino “spericolati” nel proprio quotidiano, attivano linee di racconto di matrice sociale di chiara rilevanza.Tra le più interessanti troviamo quella di Dave, bidello che ha a cuore la serenità del dodicenne “Twiglet” (Aiden Cook), emarginato a scuola, nel mirino dei bulli, con una situazione familiare al collasso; ci sono poi le battaglie di Horse, che si muove con uno scooter per persone con disabilità intento a farsi riconoscere dall’amministrazione la dignità di un sussidio. Ancora, c’è Gus che si arrabatta tra più lavori per arrivare a fine mese, con la speranza di un alloggio sociale e un modo per pagare una nuova carrozzina al nipote con disabilità. Infine, sempre nella scuola dove lavora Dave, diretta dalla moglie Jean (Lesley Sharp) – la coppia attraversa un gelido inverno, incapace di riprendersi dalla morte del figlio in fasce –, la situazione delle aule è drammatica: perdono le condutture e gli allagamenti sono diffusi, limitando molte attività didattiche; tra queste il corso di musica tenuto da Hetty (Sophie Stanton), una vera e propria “safe zone” per ragazzi divorati dai problemi.
Insomma, il quadro sociale è frastagliato, opaco, condito di disagi tipici del nostro presente.Se dunque si lascia apprezzare, e molto, la linea del racconto che esplora pagine di affanno dell’umano con sguardo attento e ironico – un umorismo pensato per “detonare” la complessità delle storie in linea con lo spirito del film originario –, convince un po’ meno l’articolazione generale della narrazione, spesso sovraccarica al punto da perdere di intensità, compattezza. Non mancano, poi, qua e là soluzioni segnate da furbizia nella direzione del politically correct (riferimenti a minoranze, comunità Lgbtqi+, ecc.), che rischiano di essere più stancanti che interessanti. Nel complesso, “Full Monty. La serie” possiede ritmo, sostanza, respiro da cinema di impegno civile, puntellata da raccordi esilaranti e graffianti nella tradizione della commedia sociale inglese. Serie complessa, problematica, per dibattiti.
“Questo mondo non mi renderà cattivo” (Netflix, 09.06)
Nello stesso perimetro sociale, ma con genere, stile e dinamiche differenti, si muove la nuova serie animata di Zerocalcare “Questo mondo non mi renderà cattivo”. Il fumettista Michele Rech, forte di un solido seguito di lettori, dopo il successo della serie d’esordio “Strappare lungo i bordi” (2021) è tornato a offrirci un racconto del quadro sociale odierno, che si compone di sfumature acute e livide. Zerocalcare ci mostra la vita nella Capitale, tra consolidate prassi sociali, simpatiche furbizie e allarmanti frizioni, tratteggiando una storia che si fa parametro, allegoria, del nostro presente.A produrla con Netflix sono Movimenti Production e Bao Publishing. Tra le voci Valerio Mastandrea nel ruolo dell’Armadillo, la coscienza “ribelle” di Zerocalcare, e Silvio Orlando nei panni di un grigio detective della Digos.
La storia. Roma oggi, nel quartiere dove vivono Zero e i suoi amici Sarah e Secco è stata appena individuata una sede per l’accoglienza dei migranti. Si accende subito una feroce protesta da parte di un gruppo che istiga all’odio sociale, che spinge Zero e gli altri a prendere posizione in difesa degli ultimi. Tra i contestatori Zero individua un amico di infanzia che non vedeva tempo, Cesare, scomparso per problemi di dipendenza…
Alla presentazione stampa Zerocalcare ha sottolineato: “Si tratta di una serie divisiva. Non cerco mai la provocazione. La suggestione di fondo è provare a dare risposte collettive ai problemi, cercare di partire dall’idea di non lasciare mai indietro nessuno: non basta stare bene da soli”.
A livello narrativo, l’autore esplora le sfide del quotidiano, tra incertezze economiche, lavori precari o demotivanti, solitudine rispetto a un sistema sociale infiacchito.
Zerocalcare racconta gli scontri di quartiere, tra amici, le divisioni divampate davanti a un centro di accoglienza per migranti, dove soffiano agitatori che antepongono l’Io al Noi. Dall’altro, tratteggia i complicati sentieri della crescita attraverso le storie dei personaggi (che intersecano anche qui svariati fronti, comprese minoranze e comunità Lgbtqi+), in particolare le difficoltà economiche che aprono a vertigini fagocitanti come quelle in cui finisce Cesare, un escluso, un sopravvissuto a droghe ed eccessi, che diventa il capro espiatorio di una realtà cinica e distratta.
Nella linea narrativa di Zerocalcare si ritrovano molte delle istanze del cinema di Ken Loach. Il suo stile però è diverso, personalissimo: muovendosi lungo il binario dell’animazione, Michele Rech usa un umorismo brillante e irriverente, a tratti caustico alla Ricky Gervais, compreso un turpiloquio spesso debordante. Non lascia di certo indifferenti “Questo mondo non mi renderà cattivo”: sulle prime la serie può apparire scomoda e un poco urticante, ma addentrandoci nel cuore si coglie tutta l’intensità dello sguardo di Zerocalcare, quel suo guardare ai fragili e agli ultimi tra denuncia e poesia. Indirizza la camera, attraverso la lente del fumetto, là dove l’umanità è sola e disgraziata. Serie complessa, problematica, per dibattiti.