Fronte sociale a grande rischio fratture
Il carattere dominante, la personalità imperante e il temperamento sovrastante della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni si erge su tutto e svetta su tutti, dal cerchio magico al partito, dal governo alla maggioranza, ricoprendo un ruolo di rimpiazzo e di supplenza, che sembra quasi voler compensare i risultati di una destra di governo che tardano ad arrivare. Dalla sintonia con il presidente degli Stati Uniti d’America, Biden alla sbandierata conclusione della vicenda di Patrick Zaki, dalla conoscenza con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen alla politica strategica cominciata nel Mediterraneo allargato, la presidente del Consiglio ha costruito una agenda evidente e molto ben riconoscibile: c’è una chiara impronta da accredito personale e si mostra nel solco di una continuità della diplomazia italiana che ha sempre ricevuto apprezzamenti. Questa cornice trasparente non si trasferisce, però, in automatico sul piano interno perché, escludendo gli scivoloni individuali, la maggioranza non riesce a esprimere una propria identità, a far capire con i fatti di quali ingredienti è fatta, soprattutto sul piano economico e sociale. Nella stagione in cui primeggiava l’asse Forza Italia – Lega Nord, si sapeva che il triangolo Berlusconi – Bossi – Tremonti puntava sulle partite iva e sul protagonismo del capitalismo molecolare del Nord. Sembra un paradosso per una destra senza complessi, eppure se si cerca un nome appropriato per definirla non si trova: conservatrice, liberale, sociale, corporativa? L’incidente parlamentare, non certo il primo, sul via libera del governo alla patrimoniale (il verde dato a un ordine del giorno presentato da Fratoianni che impegna il governo a valutare l’opportunità di introdurre una tassa sui patrimoni delle persone fisiche se maggiori di cinquecentomila euro), quantunque accomodato in extremis, è imbarazzante. Denota che qualcosa non funziona come dovrebbe sia nel coordinamento della maggioranza che nella comunicazione pubblica. La cessazione della erogazione del reddito di cittadinanza, per decine di migliaia di persone, rinvia alla voce sciatteria istituzionale. Iniziativa attesa per uno strumento inizialmente pensato a fin di bene, confezionato male (chi si ricorda la favoletta dei grillini sulla fine della povertà?), bisognoso di essere riformato, ma cestinato in maniera goffa. Un passaggio non gestito, fatto con un semplicissimo sms e svolto con freddezza burocratica, confidando nella distrazione complessiva dell’Italia estiva e marina. Un discrimine, quello dell’occupabilità, irreperibile nella letteratura scientifica e che molto difficilmente può trovare sbocco: sia perché le politiche attive sono carenti sia perché l’offerta della formazione professionale è peggiore nelle regioni in cui ci sono più disoccupati. La conseguenza è che si tornerà a non avere una misura universale contro la povertà in un Paese in cui il disagio sociale scivola sempre più verso forme di lacerazione. Fra l’ascensore sociale fermo da vari anni al piano meno uno, produttività che non cresce, stipendi erosi dall’inflazione, lo sceriffo di Nottingham – il principale avversario di Robin Hood – seguita a mordicchiare quei ceti popolari che, in parti consistenti, prima hanno fatto la fortuna elettorale del Movimento Cinque Stelle e poi della destra. La questione sociale, sfornita di un corretto approccio, resta intatta, rimane lì, riproducendo ingiustizie di lunga durata. È la grande questione nazionale, mentre sul salario minimo il governo è costretto a rincorrere le diverse opposizioni ed è sfidato su un tema molto popolare. Per cui la domanda è se non ci sia una sottovalutazione di questa emergenza e che cosa si può introdurre in sostituzione del reddito di cittadinanza. Ma perché la severità punitiva, osservata in questa circostanza e degna di miglior causa, non è replicata su altre materie? Sulla riforma fiscale non si capisce se, e in quali termini, il contrasto alla slealtà di massa sia un obiettivo nel Paese dei poveri benestanti, dove l’evasione è stimata in circa cento miliardi all’anno e dove si fa ricorso alla bizzarria della evasione per necessità: ricompensa alla propria base elettorale? Nel piano nazionale di ripresa e resilienza, il progetto iniziale prevedeva che le amministrazioni riducessero la attitudine alla evasione delle imposte, rispetto al 2019, del cinque per cento in questo anno e del quindici per cento nel prossimo. Il governo ha proposto di ritardare l’introduzione delle nuove norme di contrasto, considerato che ora molte imprese hanno problemi di liquidità e non sono in grado di pagare le imposte entro le scadenze stabilite. Si scorge all’orizzonte un autunno tormentato e non solo perché la serie statistica lo vuole caldo. L’economia frena, la produzione industriale cala, l’inflazione e i tassi crescono ancora. La manovra di bilancio non ha grandi spazi fiscali e giocarsi qualche asso nella manica – elettorale, è ovvio! – in vista delle elezioni europee del giugno 2024 sarà un vero e proprio azzardo. La maggioranza arriva all’appuntamento con la promessa di uno slancio riformista che si è attenuato nel gioco del rimando e del rinvio. Trenta anni fa l’Italia fu a un passo dall’abisso, dall’essere una Grecia senza euro e senza Europa. L’Italia uscì dalla crisi con un accordo firmato fra imprenditori, sindacati e governo: venne siglato dopo due anni di conflitti fra sindacati e Confindustria, di battaglie dopo la scelta degli industriali di disdettare la scala mobile. Il deus ex machina di quell’accordo fu l’allora presidente del Consiglio dei ministri Carlo Azeglio Ciampi: una strategia e una pagina di storia che possono ancora dire qualcosa.