La voce della povera gente
Sabato mattina il quotidiano Repubblica ha aperto la prima pagina così: “I poveri attendano”. Un titolo che richiama il lavoro dell’amico scrittore Cesare Paradiso “La povera gente attende ancora” ma, più di tutto, il saggio di Giorgio La Pira “L’attesa della povera gente”. Nel pensiero di La Pira sono congiunti –anche se distinti- l’aspetto etico e quello politico, in cui quest’ultimo è sottoposto alla mediazione di una analisi laica. Lo scopo finale della politica è servire le persone, a partire da chi ne ha più necessità, da chi ne ha più urgenza. Avere il senso dello Stato vuol dire far funzionare al meglio le istituzioni, ma vuol dire anche che nessuno va lasciato indietro, va mollato oppure trascurato. Tutti devono essere aiutati a rimettersi in piedi quando sono in difficoltà e ristrettezze economiche. Non è assistenzialismo. “Questo non è marxismo, questo è Vangelo” scrisse Giorgio La Pira. La dignità deriva dal lavoro e se c’è un diritto, è quello che ciascuno possa vivere del suo lavoro e provvedere a sé stesso, alla famiglia e ai figli. Non si rende felice una persona elargendogli un sostegno o promettendogli aumenti futuri in busta paga, ma garantendogli un lavoro corrispondente alle sue capacità, prospettando un percorso di realizzazione professionale e, prima di tutto, personale. Il lavoro è parte della realizzazione di sé stessi, è il modo di prendersi cura del mondo. Con il lavoro, “la creazione continua”, perché la Creazione è un atto di Dio che ha dato origine al mondo e lo mantiene in essere in ogni istante perché continui a esistere. In Italia c’è il dibattito sui lavoratori poveri: persone, che pur lavorando, hanno un reddito pari o al di sotto degli undici mila euro. Uno su cinque. Più che di salario minimo, forse, sarebbe meglio parlare di salario degno. C’è poi chi non può proprio lavorare o non riesce più a inserirsi nel mondo del lavoro. E anche queste persone sono parte viva della nostra società. La loro attività, pur senza essere mai assunti e stipendiati, è sovente preziosa per l’assistenza domiciliare e per il volontariato, a cui dopo aggiungere anche quanti, non per cattiva volontà, ma per carenze relazionali o per inadeguatezza o, non riescono proprio a svolgere o mantenere un lavoro. Le politiche economiche del governo, se non sono per il bene comune, creano ingiustizie e disuguaglianze. Se lo Stato democratico non è promotore di benessere e di uguaglianza di possibilità, non è più al servizio del popolo, del bene comune. La Pira non era un simpatizzante del capitalismo finanziario: oggi ci si ritrova di fronte a una finanza globale che è un mostro senza testa, capace di divorare risparmi e beni personali e di impoverire stati ed economie nazionali. La finanza deve rintracciare la sua destinazione che è il servizio all’economia reale. Creare valore, facendo muovere i capitali, può far fiorire una circolarità di ricchezza da investire. Non deve, invece, ridursi ad attività di ricerca di rendite immateriali, che vanno a rendere più ricchi fondi di cui non si sa nemmeno chi siano i detentori. Bisogna distaccarsi dalla concezione del profitto a breve termine e puntare sulle strategie di crescita e sostenibilità a lungo termine, dove le fluttuazioni del mercato possono essere assorbite. Uno dei pericoli maggiori per le imprese è di dover rispondere solo a chi investe, agli azionisti, perdendo di vista il valore sociale che le stesse rappresentano per il territorio. Il buon funzionamento della finanza dipende dai manager, se si lasciassero condurre dalla virtù della condivisione, che non è elemosina, ma è la abilità di investire somme in opere a favore del bene comune. Destinare fondi da chi ne ha in eccedenza a chi è nel bisogno non è uno scadente affare, è costruire un tessuto sociale più coeso e stabile. Non si fa una buona finanza con una cattiva etica. Negli Anni ’70, il rialzo dell’inflazione era addebitato al costo del lavoro e alle rivendicazioni salariali: oggi scaturisce dal costo dei semiconduttori, dalla crisi energetica, dalla guerra in Ucraina che non finisce. Non è equo che siano i lavoratori, i pensionati, le famiglie povere ad accollarsi il peso dell’inflazione. A salire di più con l’inflazione sono i prezzi dei beni di prima necessità, cioè quelli su cui si concentrano le spese delle fasce più vulnerabili, mentre i più ricchi accrescono i patrimoni con investimenti mirati. In questa incandescente estate, una buona parte degli italiani non fa neanche un giorno di vacanza. Che cosa succederà a ottobre alla ripresa delle scuole e di tutte le attività? L’inflazione e l’aumento dei prezzi, hanno sempre avuto un considerevole impatto sociale. La soluzione è una equa ripartizione dei costi dell’inflazione, ma serve subito una azione politica coordinata frutto del dialogo fra le parti. La Pira negli anni della guerra fredda convocò a Firenze i Convegni per la pace e la civiltà cristiana, e poi i Colloqui mediterranei. E oggi cosa rimane? C’è la precisa sensazione che l’Europa faccia progressi più grazie alle crisi che alle idee, come è successo con la pandemia. La Banca centrale europea ha modificato la rotta rispetto a quanto fece nel 2011 con la questione dei debiti pubblici e il fallimento della Grecia. Provvedimenti come il Next Generation Eu e il PNRR creano vantaggi, ripresa, progresso, opportunità, crescita, espansione. Che poi sono le politiche economiche solidali, esito di una forte reazione della politica, della quale Giorgio La Pira era un convinto assertore. A quarantasei anni dalla sua scomparsa – che lui chiamava il sabato senza vesperi, il giorno senza tramonti – continua ancora a far udire la sua voce, per chi sa ascoltare, per chi vuole sentire.