Il coraggio e la levatura del Comandante
Il terzo canale televisivo non era ancora nato, la televisione a colori incominciava a muovere, sia pure con notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei, i primi indecisi, timidissimi passi. La ammiraglia della Rai, la rete uno, la faceva da padrona e offriva quelli che erano considerati autentici capolavori. I titoli? Don Giovanni in Sicilia, Un delitto per bene, Lo scandalo della banca romana, Le uova fatali, La villa, Valentina, Gesù di Nazareth, Chiunque tu sia, Il terzo invitato, L’uomo del tesoro di Priamo, L’ultimo aereo per Venezia, Gli ultimi tre giorni, Una donna, Una devastante voglia di vincere, Traffico di armi nel Golfo, Ligabue, Castigo, L’inseguitore. Di uno, dal titolo non proprio corto, si ricordano, a parte chi scrive, solo altre due persone: è “Supermarina commissione di inchiesta speciale SMG 507”. Viene descritta l’inchiesta dello Stato Maggiore della Regia Marina su un episodio di salvataggio di naufraghi di una nave nemica da parte di un sommergibile italiano. La vicenda era già stata descritta nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti. Un fatto dimenticato, adesso evocato dal film “Comandante”, diretto dal regista Edoardo De Angelis con l’interpretazione dell’attore Pierfrancesco Favino. È la storia, la vita di un cavaliere del mare, di un uomo vero: Salvatore Todaro. Durante la Seconda guerra mondiale era il comandante del “Cappellini”, un sommergibile che faceva parte della base oceanica di Bordeaux da dove salpavano gli u-boot germanici e i sottomarini italiani impegnati nell’Atlantico. Nell’ottobre del 1940, mentre era al largo di Madera, il suo periscopio avvistò il mercantile belga Kabalo che trasportava armamenti per gli inglesi: fu affondato dopo alcune ore di combattimento a galla. La regola della guerra avrebbe voluto che il sommergibile andasse sotto, allontanandosi al più presto, per non essere intercettato dal nemico. Ma Todaro ordinò ai suoi di fare rotta per recuperare i naufraghi e di fare il possibile per metterli in salvo. Il Cappellini tentò, allora, una impresa inconcepibile: trainare le lance dei naufraghi verso la costa più vicina, che si trovava a oltre cento miglia di distanza. Dopo un giorno di mare, il cavo di traino si ruppe. Todaro ordinò di fare salire i naufraghi sul sommergibile e di ospitarli nell’unico spazio disponibile, la torretta, per condurli poi in salvo nelle Azzorre, in una zona pattugliata dagli inglesi. Solo allora Todaro rientrò alla base e fu duramente ammonito dall’ammiraglio tedesco Karl Dönitz, che lo ingiuriò definendolo un “Don Chisciotte del mare” e lo minacciò di conseguenze per aver salvato i naufraghi mettendo a rischio il suo equipaggio e il suo sommergibile. Todaro, invece di dire “signorsì”, a testa alta e con lo sguardo fiero, contestò con risolutezza: “Noi siamo marinai italiani, abbiamo duemila anni di civiltà sulle spalle, e noi queste cose le facciamo”. Salvare vite in pericolo, non lasciare affogare i naufraghi, era un dovere che veniva prima di qualsiasi altra esigenza, anche bellica. Lui aveva solamente ascoltato la sua coscienza, tenendo fede ai più alti principi etici. Nei suoi 34 anni di vita, Todaro riuscì a collezionare una medaglia di oro e una di argento al valore militare, due di argento sul campo, una di bronzo al valore militare e una di bronzo sul campo. Ma l’autentico riconoscimento lo ricevette quando arrivò allo Stato Maggiore una lettera non firmata, da Lisbona, scritta in francese e a lui indirizzata: “Felice è la Nazione che ha degli uomini come Voi. I nostri giornali hanno riferito del Vostro comportamento con l’equipaggio di una nave che era Vostro dovere affondare. Esiste un eroismo barbaro e un altro di fronte al quale l’anima si mette in ginocchio: il Vostro! Siate benedetto per la Vostra bontà che ha fatto di Voi un eroe non soltanto dell’Italia ma dell’Umanità. Una donna portoghese”. Venne ritrovata nel portafogli di Todaro, vittima nel mitragliamento aereo inglese del suo natante, il Cefalo, in missione in acque tunisine nel dicembre del 1942. Significativo, che quelle frasi, scritte dalla moglie sconosciuta di un marinaio di un equipaggio di un natante silurato dal Cappellini, fossero da lui ritenute più importanti delle medaglie di argento e di bronzo conferitegli. Una lettera da tenere stretta al cuore, avendo rischiato la propria vita e quella del suo equipaggio, trainando per centinaia di miglia, in pieno Atlantico, le scialuppe di salvataggio dell’equipaggio della nave nemica affondata e sbarcarli in un porto sicuro, invece di lasciarli al loro destino, secondo le leggi di guerra. Quelle parole, scritte su un pezzo di carta, confermavano il coraggio e la levatura di un uomo che era riuscito a non smarrire la propria umanità neanche di fronte ai combattimenti più violenti della Seconda guerra mondiale e alle logiche guerrafondaie volute da un alleato privo di scrupoli. Un gesto, quello di Salvatore Todaro, che fece scrivere il suo nome sul fusto di un albero del Giardino dei Giusti nel Mondo. Una menzione che non avrà mai chi ha barattato duemila anni di civiltà con una manciata di voti e qualche decina di like sui social, presupponendo che ciò sia tutto, proprio tutto.