L’Unione africana nel G20 e l’erosione della Françafrique
L’ingresso nel gruppo dei 20, sancito a Nuova Delhi, suggerisce elementi per nulla marginali: sono le basi di una nuova decolonizzazione?
L’ingresso dell’Unione africana nel G20 sancito a Nuova Delhi suggerisce elementi per nulla marginali. A intestarsi il merito il padrone di casa, Modi, cui giova vantare lustro e crediti nel Sud globale: emblematico il ripristino nel summit dell’antica denominazione “Bharat” in luogo di “India”, dal retaggio occidentale. Ma significa di più la benedizione rivendicata da Biden. La concomitanza con il golpe in Gabon, a stretto giro con quello in Niger, non passa inosservata: l’ottavo in 3 anni nella regione, anch’esso sostenuto da una base popolare sensibile al tricolore russo. Chiara la necessità di arginare l’effetto domino, mostrando la magnanimità di Washington in luogo di reazioni muscolari che, scoperchiando il vaso di Pandora, sarebbero una pessima risposta all’attrattiva multipolare targata Brics.
L’iniziale sostegno all’intervento armato minacciato dai Paesi Ecowas contro la giunta nigerina si è smorzato, vanificandone l’ultimatum. A far mutare il registro è servito, oltre al sostegno promesso dalle filorusse Mali e Burkina Faso, l’opposizione di diversi stati confinanti a un attacco suscettivo di destabilizzazioni sia regionali sia interne: timore che spiega dunque il ripensamento dell’Unione africana, non disposta a replicare i guasti irradiati dal disastro libico né a legittimare un ulteriore precedente ingerenziale nell’area, capace un domani di ritorcersi contro chiunque altro. D’altronde, sarebbe arduo giustificare l’iniziativa militare in nome della democrazia, data la natura illiberale di diversi governi Ecowas. Soprattutto, i golpisti hanno rovesciato governi invisi alla maggioranza popolare per antipluralismo, corruzione, malgoverno nel fronteggiare il jihadismo salafita e inerzia rispetto al sottosviluppo e alla povertà.
In Gabon i militari, dopo l’ennesimo voto truccato, hanno rovesciato il sultanismo della famiglia Bongo, di padre in figlio al potere dal 1967. Promettono sovranità e sviluppo, libere elezioni e riforme costituzionali da sottoporre a referendum. Sostenuti di tutti i partiti, a capo del governo di transizione hanno nominato un civile, Sima, già primo ministro passato all’opposizione. Così la Casa Bianca, in linea con l’Unione africana, alla condanna del colpo di stato fa comunque seguire buoni auspici anziché minacce.
Un dato più specifico discende dalla sempreverde affermazione di Kissinger, per cui “gli Usa non hanno amici o nemici permanenti, ma solo interessi costanti”. Ciò comporta la duttilità nel ricalibrare i rapporti con regimi geostrategicamente funzionali, indipendentemente dalla loro natura. Vale anche per il Gabon di Bongo jr: Obama ne sponsorizzò la partecipazione al Consiglio di Sicurezza Onu, ottenendone l’appoggio a tutte le misure franco-statunitensi che portarono all’attacco alla Libia di Gheddafi. Nel 2016 il presidente oggi deposto fu designato dall’Atlantic Council per il Global Citizen Award. Eppure, quale che sia la leadership, è importante che il Paese continui a favorire la presenza militare Usa nella regione. Lo stesso vale per il Niger, che ospita 3 basi militari con 4mila uomini e il secondo dronoporto africano.
La duttilità di kissingeriana lettura spiega perché stavolta sono gli Usa a indossare le vesti del moderatore, mentre l’interventismo francese morde il freno. Parigi si dice delusa dal G20 e definisce una “epidemia” da debellare quanto accade nel cuore dei suoi interessi oltremare. Nella Françafrique essa ha saputo riconvertire la dominazione coloniale in gestione estrattivistica, assicurando alle proprie imprese il quasi-monopolio su risorse naturali, appalti, infrastrutture, reti energetiche, credito, con il corredo di elevate esenzioni fiscali e royalties incongrue. Tutto puntellato dai legami clientelari con l’élite locale e dalle basi militari. Fattore nevralgico – minacciato nel 2008 dai progetti di Gheddafi per una moneta panafricana – è il franco Cfa. Grazie a esso i mercati africani vengono orientati stante il vincolo alla divisa francese, con il vantaggio di acquistare materie prime non denominate in dollari. La riforma monetaria continua a essere dilazionata, fermo restando che l’obbligo di depositare nel Tesoro francese la metà delle riserve valutarie delle ex colonie (e non solo), con una quota in garanzia delle passività, ha consentito a lungo a Parigi di reinvestire tali capitali o di versarli alla Bce come propri.
Tra Usa e Francia è facile riconoscere quale sia la posizione chiamata a sacrificarsi, disponendo di poche leve per fare pressione. Del resto l’agenda protezionistica anticinese intimata da Washington (al G20 anche l’Italia ha fatto dietrofront sulla Via della Seta), il divorzio energetico dalla Russia (si veda il fantasma della deindustrializzazione persino in Germania), il deficit commerciale registrato nell’Eurozona nel 2022 e la fuga degli investimenti attratti negli Usa dall’Inflaction Reduction Act disegnano uno scenario debilitante per tutti i ruoli gregari dell’euroatlantismo.
Ma se l’Eliseo non riuscirà a farsi valere con la Casa Bianca, non si escludono frizioni con Paesi che gli contendono spazi afromediterranei (leggasi Turchia), pronti ad approfittare dei suoi affanni. O anche con sodali che, oltre allo status atlantico, ne condividono anche il suddetto quadro di difficoltà intraeuropea. L’indebolimento geopolitico espone la Francia alle tentazioni di quanti (come in Italia, ove si riaccende la memoria su misteri irrisolti del passato mentre si invoca cauto attendismo osservando l’erosione della Françafrique) vedono in Parigi un ingombro alle proprie proiezioni a sud, uniche alternative alle relazioni precluse a est. Che ciò irretisca l’Ue lo dimostrano le dichiarazioni oblique di Borrell, che deplora la giunta gabonese e tuttavia rileva che c’è golpe e golpe, si preoccupa per gli sguardi saheliani verso Mosca e Pechino e invita a sostenere l’autodeterminazione delle scelte africane.
Lontane le primavere arabe, quando i cambi di regime riscuotevano gli elogi di un Occidente oggi unito invece dall’ansia per gli eventi più a meridione, nel teatro di un’apparente decolonizzazione: per taluni più veridica di quella del secolo scorso, per altri ennesima ambientazione locale di antagonismi globali. Ma non è detto che non si ripeta quanto accadde allorché gli Usa, per prevenire l’espansione dell’orbita Urss, assecondarono l’emancipazione di contesti critici non più saldamente in mano alle potenze europee e comunque non allineabili a Washington: forse l’azione dell’Unione africana nel G20 sarà l’occasione di verificare il detto secondo cui tra i due litiganti…
*Pontificia università Lateranense