Un disastro prevedibile e previsto
La sera del 9 ottobre 1963 si staccò, dal monte Toc, una frana di due chilometri e di oltre duecentosettanta milioni di metri cubi. In venti secondi la frana arrivò a valle, generò una scossa sismica e riempì il bacino artificiale. Gli oltre ventitré milioni di metri cubi di acqua che scavalcarono la diga del Vajont distrussero Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta e danneggiarono altri cinque centri abitati. Non fu un disastro soltanto annunciato, ma prevedibile e previsto. Lo intuì Odoardo Ascari, difensore di parte civile del Comune di Longarone e della maggior parte dei familiari degli oltre 1400 morti solamente a Longarone. Consultò Willard J. Turnbull, una autorità mondiale in idrogeologia, esperto di progettazione e manutenzione di dighe e invasi. Quando l’interprete gli riferì che un caposaldo del monte Toc si era mosso di tre metri e mezzo, Turnbull scoppiò a ridere: “Ma si sarà mosso di tre millimetri e mezzo!”. Poi si fece serio e disse che in quelle condizioni non avrebbe autorizzato l’allagamento dell’invaso e nemmeno la realizzazione della diga. L’energia sprigionata dallo spostamento d’aria e dallo schianto dell’acqua, registrati come una scossa tellurica, fu il doppio di quella prodotta dalla bomba atomica a Hiroshima. Il bilancio delle vittime arrivò a 1.918, di cui 819 mai più trovate. Sei anni dopo lo Stato, imputato e, nel contempo, per di più costituitosi parte lesa, riuscì a far trasferire il processo da Belluno a l’Aquila “per legittima suspicione”. Gli scampati e i sopravvissuti, per testimoniare alle udienze, furono condannati a raggiungere la sede del processo dopo un viaggio di ottocento chilometri. Fu un evento unico nella storia delle grandi catastrofi: il tutto si preannunciò con anticipo e con segni di scioccante significato. Non soltanto, si svolse perfino sotto la luce dei grandi proiettori elettrici che permettevano il controllo della sua evoluzione. Per non ritardare l’ammortamento del capitale, perdere parte del contributo statale, ridurre di molto il profitto sperato, si fece prevalere la logica del profitto sull’interesse pubblico: in connivenza con gli organi pubblici che abdicano al loro diritto e dovere di Stato di ispezionare e abbandonano in balia del concessionario il destino delle popolazioni minacciate dal pericolo. L’Italia da sessanta anni avanza in bilico fra una strage e l’altra. Non catastrofi naturali, ma tragedie preparate da una connivenza fra le persone, fra le imprese e le istituzioni. Ma non si può più parlare di natura maligna, perché tragedie del genere si sono verificate varie volte nel nostro Paese, anche se non tutte con le stesse modalità e non in presenza di nuove opere: si era in presenza di interventi e di costruzioni, di abitazioni sorte dove non avrebbero dovuto sorgere. Il pensiero va ai giorni di preoccupazione che si stanno vivendo nei Campi Flegrei, dove si sono registrati vari sismi e si invoca un piano di evacuazione della popolazione che vive in quella zona, in caso di eruzione del Vesuvio o di altra necessità. Se i cambiamenti climatici possono aver esteso la frequenza degli eventi atmosferici intensi, il problema è la maggiore urbanizzazione rispetto al passato. I rischi non si possono annullare, ma mitigare. Certo, è difficile agire in aree popolate o dove negli anni si sono costruiti edifici, industrie e centri urbani e commerciali. A parità di intensità e frequenza di fenomeni atmosferici, come pioggia, o anche di magnitudo di un terremoto, crescono anche pericolosità e rischi. La storia del Vajont non è solo memoria di una catastrofe, ma di una serie di negligenze, di inerzie, di rischi erroneamente calcolati o liquidati perché inverosimili, non perché improbabili. La tragedia di Longarone ci ha dimostrato che esistono eventi naturali che diventano catastrofici per colpa nostra. Se gli uomini non avessero inseguito l’illusione di una realizzazione perfetta che fosse la più grande del mondo, non ci sarebbe stato il disastro. Il Vajont è stato una tragedia provocata dall’uomo, perché senza lago e diga non ci sarebbe stata la frana, esaminata alla luce dei proiettori elettrici fin dalla costruzione della diga. Eventi come l’alluvione in Emilia Romagna della scorsa primavera dimostrano le difficoltà nell’attuazione di piani di messa in sicurezza del territorio. Fare prevenzione è possibile a patto di fare un passo indietro: vuol dire che bisogna lasciare i territori pericolosi, che occorre togliere le strutture da luoghi non idonei perché pensare di risolvere le diverse criticità con nuove opere contenitive è impossibile. Le opere non ci possono proteggere da tutto. Il rischio zero non esiste, occorre più prevenzione nella progettazione. Si pensi in questo sessantesimo anniversario del Vajont al crollo del ponte Morandi, alle varie regioni consegnate a frane e allagamenti, agli incidenti ferroviari e non, alle ricostruzioni mancate dopo i terremoti e le inondazioni, ai migranti lasciati affogare davanti alle nostre coste, alle sorgenti, ai torrenti e ai fiumi avvelenati dagli scarichi industriali, ai tanti abusi edilizi che condannano interi centri abitati a essere spazzati via da piene e da slavine. Queste stragi di povera gente sono un quotidiano schiaffo, soprattutto contro chi muore senza un perché.