Fra quelle mani, migliaia di morti
Esiste una guerra più importante di un’altra? Forse sì. Basta pesarla economicamente e geopoliticamente e, visti i criteri di misurazione alle latitudini occidentali, purtroppo anche etnicamente. Le bombe cadono vicine o lontane da dove viviamo? Aumenteranno ancora i prezzi di petrolio e gas? Le vittime hanno la pelle nera o bianca, gli occhi neri o azzurri, ci somigliano o no? Se fosse un diplomatico a ragionare così, il mondo somiglierebbe a una tomba a cielo aperto, più di quanto già non sia, ma il fatto è che i nostri encefali oramai rischiano di portare a termine trattative con lo stesso esito: troppo spesso decidiamo di stare dalla parte di chi appare più volte in tv o sui giornali. D’altronde la differenza si vede già: da sabato 7 ottobre decine di ore e di pagine per narrare le conseguenze dell’attacco di Hamas contro Israele e un paio di minuti e di pagine per l’Ucraina, devastata dalla guerra di “denazificazione” provocata dalla Russia il 24 febbraio di un anno fa. Martedì sera Zelensky è volato a Bruxelles per andare, a sorpresa, nel Quartier generale della Nato. Ha voluto guardare negli occhi i suoi interlocutori mentre lo tranquillizzavano: “La battaglia dell’Ucraina è la nostra”. Forse il chiarimento di Jens Stoltenberg, il segretario generale, non era così scontato, almeno per Kiev, benché in venti mesi gli alleati della Nato non si siano mai scollati dal suo fianco nella guerra contro Mosca. “Possiamo fare le due cose e faremo entrambe le cose”, ha sottolineato il segretario americano alla Difesa Lloyd Austin, annunciando nuovi aiuti. Chissà cosa avrà temuto Zelensky: riflessione amara, forse pure meschina, ma sarà davvero difficile d’ora in avanti pesare con lo stesso criterio di razionalità il sangue che stanno versando israeliani e palestinesi in questi giorni e quello in cui sta annegando il popolo ucraino. Se il sangue è più fresco lo sono anche le reazioni dell’opinione pubblica e, purtroppo, su questa giostra dell’emozione momentanea è saldo il mondo politico, da un lato all’altro degli schieramenti. Si litiga se la Stella di David viene o non viene presentata sulla facciata degli edifici pubblici, si discute del perché sia stata esposta quella della pace e non anche quella bianca e blu di Israele. E poi è un continuo affermare chi sta al fianco di chi, tacciando di essere filo – qualcosa l’opinione controcorrente o solo più approfondita dell’interlocutore. Anche in quest’ultima tragica occasione, è difficile resistere a certi automatismi. Per esempio, la maggior parte dei civili palestinesi non è affiliata ad Hamas: quante persone danno per sottinteso il contrario? Vengono in mente i giorni in cui la Russia interruppe le forniture di gas verso l’Europa: eravamo sprofondati nell’angoscia. È, più o meno, la stessa ritorsione che sta patendo chi vive e muore nella Striscia di Gaza, senza elettricità, né acqua né gas finché non verranno liberati gli ostaggi israeliani in mano ai terroristi di Hamas. Ma i bambini decapitati nelle culle sono una atrocità che è difficile da raccontare, da sostenere con lo sguardo alla tv, con la lettura dei quotidiani. Quei bambini sono solamente una piccola quota degli innocenti e dei massacri che sono stati compiuti, perché i numeri dei morti sono più alti. Si parla di mille finora nella guerra di Gaza, ma di fronte a scontri così violenti e a escalation così rapide, i dati fanno sbiadire i contorni del ribrezzo che dovremmo provare verso una umanità che dimentica. Si parla di nuovo Olocausto, i mezzi di comunicazione di massa danno notizia sempre e solo del conflitto che definire solamente israelo-palestinese è ormai riduttivo, visto il coinvolgimento di altri paesi già entrati in guerra o che potrebbero esserlo a breve. Anche chi si trova “a casa”, lontano da dove ci si sta scannando ancora, inorridisce di fronte a questa tragedia immane. Il sentimento comune dilaga e a guardare la tv non ci si riesce più: non è stanchezza, è un dolore che sgorga dentro e che colpisce il cuore e la mente. Un sacerdote che non c’è più, in occasione di uno di quei tanti trattati di pace per quella terra, forse la stretta di mano fra Sadat e Begin a Camp David, disse: “Fra quelle due mani, ci sono migliaia e migliaia di morti”. La perdita più grave è l’odio seminato a piene mani fra le nuove generazioni. Che dire dei poveri che nulla sanno di politica e che pagano per tutti? Si può ricostruire tutto, si possono ricostruire le case e le città: ma chi pagherà tutte i dolori e i lutti della povera gente, dei superstiti di Bucha, Kharkiv, Kherson, Mariupol, dei sopravvissuti ebrei e islamici, israeliani e palestinesi?