Il miracolo della resurrezione
Senza pietà è stato l’attacco di Hamas nel sud di Israele all’alba del 7 ottobre, che ha causato la morte di centinaia di civili e di militari, mentre decine di persone di diverse nazionalità sono state prese in ostaggio. Senza pietà è stata la reazione di Israele, che ha iniziato a colpire la striscia di Gaza, roccaforte di Hamas, sottoponendola a un vero e proprio assedio, senza acqua, energia elettrica e carburante per giorni. La sorpresa iniziale, di fronte a quanto è accaduto quella mattina, ha lasciato spazio allo smarrimento e alla preoccupazione perché siamo sul bordo di un abisso profondo e pericoloso. Il rischio dell’espansione di questo conflitto è reale e pericoloso e, di fronte a tale drammatica possibilità, l’incertezza e la confusione prevalgono. Tutti i conflitti sono un punto morto nella storia dei popoli implicati e una sconfitta per tutta l’umanità: se si perde tale consapevolezza, si corre il rischio di assuefarsi all’idea della inevitabilità della guerra, come via per risolvere le contrapposizioni. Il fatto che sono molte le guerre in atto nel mondo non inficia l’importanza dell’affermazione di principio, ma dà l’idea dell’azione che le istituzioni internazionali, gli stati e le società civili dovrebbero esercitare. Non tutte le guerre hanno lo stesso impatto sulla politica internazionale o la medesima risonanza presso l’opinione pubblica a livello mondiale: la minore o maggiore attenzione non dipende dai numeri del singolo conflitto, che potrebbero anche essere gravi, ma da altri fattori, come il peso internazionale degli stati coinvolti, quanto ha preceduto e, talvolta, preparato le violenze di oggi, gli effetti sullo scacchiere globale. Ciò che sta accadendo oltrepassa i confini della rilevanza regionale, per investire tutto il mondo, così come è stato per l’attacco all’Ucraina, che, per le ripercussioni che ne sono derivate, non è un evento solo europeo. Perciò, dall’offensiva di Hamas l’attenzione è massima e il coinvolgimento è enorme, non solo per le vicende odierne, ma per una storia di violenze e di tentativi di pace lunga più di settant’anni. In questi decenni gli stati e i loro politici hanno sostenuto e difeso le richieste di una delle parti coinvolte contro l’altra. E tutto questo lo si percepisce da come, nel nostro Paese, si discute sulle notizie che arrivano. Dinanzi alle notizie, scatta la ricerca del colpevole perché sia fatta giustizia, soprattutto se le vittime sono civili innocenti. Ciò avviene laggiù, ma lo si rileva pure nell’opinione pubblica “lontana”, e si traduce nella necessità di identificare il colpevole. È un bisogno legittimo che si scontra con il fatto che individuare le responsabilità è una operazione complicata: può essere facile farlo per una singola vicenda, ma non è una regola che vale sempre. A rendere difficile la ricerca è la propaganda delle parti in conflitto in tempo di guerra, a cui si assomma la facilità di diffondere, in modo virale, le fake news tramite video, foto, messaggi, grazie a un click sui social. Ancora più difficile quando si tratta di un conflitto che dura da settant’anni ed è il caso di Israele e della Palestina. In questi decenni si è stratificata una storia ritmata da ingiustizie e atti di violenza, perpetrati e subiti da un lato e dall’altro, che sono stati ora vittime e ora carnefici. Ed è serio il pericolo di cadere nella trappola delle semplificazioni e delle polarizzazioni, che si sono fossilizzate nel contesto internazionale, e nei vari paesi, rispetto alle vicende della Terra Santa. Prima fra tutte quella che pone l’aut aut fra stare “con Netanyahu” o “con Hamas”, dimenticando che i soggetti coinvolti sono numerosi, basti pensare all’Autorità nazionale palestinese, o identificando, in modo indebito, tutti i palestinesi con le violenze fatte da Hamas o tutti gli israeliani con le decisioni di Netanyahu. Si sa che le polarizzazioni presenti in un paese sulla vicenda arabo-israeliana sono lo specchio di tensioni e divisioni che risiedono nella realtà politica e sociale locale, più che esprimere un punto di vista che sorge dalla valutazione di quanto è accaduto nel corso degli anni in quell’area. Le domande sono tante. Perché una parte politica o un pezzo di società civile ha un’empatia maggiore per una parte o per l’altra? Si sta con gli israeliani perché sono più vicini a noi sul piano culturale? Perché, dall’antichità, sono stati ghettizzati e vittime di discriminazione? Si sta con i palestinesi perché sono tra i popoli più poveri al mondo? Oppure perché il loro anelito ad avere una terra non trova una risposta concreta? Certo è che tutti hanno accettato che i civili siano sacrificabili, siano ostaggi oppure no. Sono i danni di una violenza che viola uno dei principi di base del diritto umanitario internazionale, creato nell’ultimo secolo per proteggere la popolazione inerme e scongiurare molte vittime. La domanda clou è: quale limite non si può superare, in una guerra, dal punto di vista politico, giuridico ed etico? La domanda vale pure per la comunità internazionale: qual è la soglia che non va superata perché la risposta a un attacco sofferto non si trasformi in qualcosa di ben diverso? Dipende da cosa si pensa dell’avversario: in guerra, disumanizzare il nemico è una vecchia tattica, al punto che anche i bambini diventano colpevoli e meritevoli di essere puniti. Bambini morti, dall’una e dall’altra parte. Vite e popolazioni in ostaggio di un conflitto lunghissimo per la stessa terra. E chi crede di credere nello stesso Dio si scanna nel nome di quel Dio che soffre a mantenere lo sguardo sui luoghi dove nacque e visse Suo figlio. Soffre a vedere il sangue che scorre lungo le tracce lasciate nelle pietre e nella storia, che scorre sotto lo stesso cielo visto dal padre Abramo. La speranza di pace pare morta in quei luoghi, ma il miracolo della resurrezione potrà farlo soltanto una politica globale che imponga il rispetto dei diritti violati. Ma la resurrezione, viste le reazioni della politica araba e occidentale, sembra abbastanza lontana.