Nicola Gratteri: “Criptofonini, bitcoin e dark web: i nuovi boss trafficano così”
La vecchia coppola è finita in soffitta, a vantaggio di copricapi griffati e abiti sartoriali, confezionati su misura in via Montenapoleone, nella londinese Savile Row o nelle maisons parigine degli Champs-Elysées. E la lupara pure, perché gli strumenti dei nuovi traffici si chiamano super computer e terabyte. I boss 5.0, racconta il neo procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri, comunicano con criptofonini a prova di intercettazione, spostano con un dito sul tablet montagne di denaro in valute virtuali, assoldano ingegneri informatici e maghi del computer e si muovono nell’ombra di piattaforme nascoste come il dark web. Gratteri, classe 1958, è un uomo all’antica, orgoglioso delle proprie radici piantate nella terra della Locride, e insieme “contemporaneo”, come si definisce, perché si aggiorna continuamente sulla minacciosa espansione dei fenomeni criminali sul pianeta. Da ottobre, dopo una vita trascorsa come magistrato inquirente in Calabria, la sua sfida si chiama Napoli, “la procura più grande d’Europa – snocciola – con 9 aggiunti e 102 sostituti”. Da giorni, ne ascolta le valutazioni: “Non mi fermo mai, neppure mentre mangio. Ricevo uno dopo l’altro i colleghi e ragioniamo sulle priorità da affrontare”. In sedici anni, nel corso di interminabili giornate (“dormo dalle 22 alle 3 del mattino, poi mi sveglio, leggo e scrivo”), insieme all’inseparabile amico giornalista e storico Antonio Nicaso, Gratteri ha sfornato una ventina di libri. Le mafie, argomenta, sono capaci “di trasformare in opportunità di business anche una guerra come il conflitto in Ucraina, la pandemia da Covid- 19 o il piano di ripresa economia del Pnrr”. Ma nel nuovo saggio – “Il grifone”, in uscita per Mondadori in queste ore e di cui quest’intervista offre un’ampia anticipazione – il magistrato si spinge più in là, provando a raccontare le mafie del futuro, anzi ormai del presente, tratteggiando la metamorfosi hi-tech della malapianta, attecchita sul web.
Procuratore, le mafie da oltre un secolo provano a controllare fisicamente i territori in cui operano. Ormai hanno colonizzato anche le praterie virtuali del web?
Le mafie hanno sempre dimostrato di avere una grande capacità di adattamento. Sono riuscite a passare indenni l’ultima fase del regime borbonico, lo stato liberale, il ventennio fascista, la prima e la seconda repubblica. Sono ancora forti e stanno esplorando con successo anche lo spazio cibernetico che deve essere visto come un’estensione del territorio fisico. Hanno iniziato con i social media (da Facebook a Tik-Tok) e stanno dimostrando sempre più interesse a estendere la loro influenza e il loro controllo su nuovi territori e opportunità economiche. Con l’espansione del mondo digitale e l’importanza crescente del web nella vita quotidiana, anche le mafie cercano di sfruttare questo spazio virtuale per scopi illegali. Tra le aree di interesse, ci sono gli attacchi informatici, le frodi online, estorsioni ransomware e altre attività illecite online. Sono attente anche alle dinamiche del dark web, la parte nascosta e non indicizzata del web dove, durante la pandemia, sono prosperate le attività illegali e da alcuni anni utilizzano anche le criptovalute.
Boss e picciotti hanno acquisito competenze informatiche o assoldano hackers che lavorino per loro?
I due ambiti continuano a rimanere separati. Alcune indagini hanno rivelato l’utilizzo di hacker che però non sono rimasti nascosti dietro lo schermo di un computer, ma sono andati a operare in Calabria al fianco di alcuni boss del Crotonese. L’impressione che si coglie è che alcune famiglie di ‘ndrangheta non siano più scarsamente competenti e costrette a ricorrere sempre e comunque a consulenti esterni. Alcuni collaboratori di giustizia hanno raccontato scenari caratterizzati da investimenti su piattaforme clandestine di trading e altre operazioni che in passato non erano mai state ricondotte a organizzazioni mafiose.
Quale, fra le mafie italiane, è quella più operativa sul web?
La ’ndrangheta sembra essere un passo avanti rispetto alle altre mafie nell’ottica della gestione di criptovalute e attività illegali online. La camorra è più coinvolta nei social media, un mondo che viene continuamente esplorato anche da mafiosi, ‘ndranghetisti ed esponenti dei clan del Gargano.
Come operano ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra nel mercato delle criptovalute?
Si tratta di un mercato con lucrose prospettive, se si pensa che nel 2022 il volume delle transazioni illecite ha raggiunto il livello record di 20,6 miliardi di euro. Le mafie operano in due modi. C’è chi utilizza queste valute e chi le estrae attraverso un sofisticato meccanismo di “mining”, che passa dall’uso di computer tecnologicamente avanzati con dispendi energetici rilevanti. C’è uno studio della Fondazione Magna Grecia, che verrà pubblicato a dicembre, che documenta una forte presenza della ‘ndrangheta nell’estrazione di criptovalute in Calabria.
Quali sono i business criminali più praticati dalle mafie nostrane sul dark e sul deep web? Narcotraffico, commercio di armi, truffe, vendita di merce taroccata, furto d’identità, altro ancora?
Nei bazar digitali si vende e si acquista di tutto: è possibile trafficare in droga, armi, vaccini, big data e tante altre cose che fino a poco tempo fa sembravano frutto di fervide immaginazioni. Ma Il dark web serve anche a custodire server per comunicazioni sempre più sofisticate e protette.
Ci sono esempi di nuovi boss già esperti di utilizzo del web?
Ci sono indagini in Calabria e in Lombardia in cui boss di ‘ndrangheta gestiscono attività di “phishing” grazie ad hacker assunti in Romania. E fanno operazioni di riciclaggio con hacker tedeschi che, come si diceva, hanno operato in Calabria, avendo accesso anche a banche europee.
Come si possono attrezzare i singoli Stati per contrastare la minaccia delle mafie del futuro, mimetiche e silenti?
Bisogna evitare che nel mondo ci siano zone franche, territori con legislazioni meno affliggenti. È necessaria una strategia globale, una cooperazione sempre più efficace con continui scambi di informazioni e di intelligence. Altrimenti, sarà sempre più difficile contrastare le mafie, oggi sempre più ibride, a cavallo tra la dimensione analogica e quella digitale.
Piattaforme “blindate” e chat criptate vengono usate per comunicare al sicuro dal rischio di essere intercettati dalle forze dell’ordine…
Già. Ci sono server che garantiscono comunicazioni sempre più sicure e aziende che costruiscono piattaforme e applicazioni per conto delle mafie, come dimostrano i sistemi Encrochat e SkyEcc. C’è motivo di ritenere che oggi le mafie – oltre ad avere al loro servizio pirati informatici, drug designer e hacker – dispongano di ingegneri informatici, che lavorano per evitare che le comunicazioni vengano intercettate dalle forze dell’ordine. Uno dei casi più noti è quello di Vincent Ramos, che in Canada costruiva sistemi per conto del cartello messicano di Sinaloa.
C’è il rischio che le dotazioni di poliziotti e magistrati non siano all’altezza di computer e smartphone usati dai criminali hi tech?
Il rischio c’è, soprattutto se si tiene conto che le forze dell’ordine hanno problemi di organico, oltre che di fondi necessari per affrontare minacce sempre più globali. Cionono-stante, non stanno con le braccia conserte. Si stanno attrezzando, stanno svecchiando i protocolli d’indagine. E i risultati cominciano a vedersi. Certo non basta, c’è bisogno di una nuova consapevolezza nella lotta alle mafie che oggi sparano di meno, corrompono di più e stringono alleanze sempre più strategiche.
Dopo una vita trascorsa a indagare sulle cosche calabresi, per lei la nuova sfida si chiama Napoli. Quali differenze ha trovato nella struttura della camorra, rispetto alla ‘ndrangheta?
Non ho la pretesa di fare valutazioni sulle tante camorre esistenti in Campania. Posso dire di aver trovato magistrati e investigatori competenti e preparati. Sto aggiornando le mie conoscenze sul fenomeno, che in alcune province campane non è poi molto diverso dalla ‘ndrangheta. Faremo comunque di tutto, lo assicuro, per rendere i territori più vivibili.
* intervista gentilmente concessa da Avvenire