Le parole per un uomo, per un amico
Il passare del tempo gioca brutti scherzi. Se poi sono passati oltre quaranta anni, lo scherzo diventa quasi di pessimo gusto. Accade, talvolta, che i ricordi si affollino, si mescolino, si confondano e poi, alla fine, non ci si ricorda chi c’era in quella occasione, chi ha fatto quella battuta che fece ridere a crepapelle tutti i presenti oppure chi raccontò quella barzelletta che fece sbellicare tutti a lungo. Ma ci sono dei ricordi che sembrano davvero scolpiti nella dura roccia. Eravamo diversi amici – non eravamo soltanto colleghi, eravamo diventati, pian piano, veri e propri amici – che facevamo tutti parte della redazione del Nuovo Dialogo e, qualche volta, ci si accordava per trascorrere insieme una giornata diversa. In effetti, erano delle gite fuori porta, così come si dice a Milano. Una domenica di aprile dei primi anni ottanta decidemmo di trascorrere tutta la giornata in quel di Porto Cesareo. All’ora di pranzo, ci sedemmo in uno dei molti ristoranti della cittadina e, per prima cosa, chiedemmo degli antipasti di mare. Uno dei camerieri, che aveva, fra le mani, diversi piatti ovali da portata, senza accorgersene, scaricò buona parte del condimento liquido dei coccioli di mare sul retro della mia giacca. Non me ne accorsi, non se ne accorse il cameriere e nemmeno gli altri commensali. Ma, mentre degustavamo cozze e polipo, Angelo Caputo, che era seduto alla mia sinistra, prese un pezzo di pane e iniziò a strofinarlo sulla mia giacca. Mi girai e lo guardai incuriosito. “Scusa, Emanue’, sto facendo la scarpetta! Il condimento sta tutto qua!”. In quel tempo, a quella età (avevo poco più di venti anni), in un frangente del genere (una giacca indossata per la prima volta il giorno precedente), avrei preso fuoco nell’acqua, mi sarei infuriato, inviperito, imbufalito. Non accadde nulla di tutto ciò. Fui smontato dalla espressione serafica della faccia di Angelo, o, probabilmente, fu il suo sorriso a sgonfiarmi oppure l’innocenza della sua battuta. Era così. Angelo era proprio così. Nelle relazioni con le persone era semplice, spontaneo.
Il suo non era un atteggiamento di parvenza, non era un voler essere a ogni costo simpatico, soprattutto perché era autentico, era genuino, era schietto. In chi lo incontrava per la prima volta poteva provocare l’impressione di essere una persona un po’ ingessata, non molto sciolta. Ma poi, conoscendolo, le cose erano totalmente diverse. In questo, Angelo somigliava tantissimo al suo papà, Nicola: chi scrive ebbe, negli anni ottanta, la fortuna di essere incluso fra i suoi “giovani allievi” nella redazione del Corriere del Giorno. Angelo era “tutto” suo padre: la stessa finezza, lo stesso garbo, la stessa discrezione, la stessa delicatezza e signorilità. Delle volte, in taluni periodi spesso, capitava che ci si ritrovasse a parlare, con lui e con altri del mestiere, delle peripezie lavorative che erano elementi caratteristici dei nostri primi avvicinamenti a una cerchia tutta particolare, come quella del giornalismo, sia della televisione che della carta stampata. Ecco, in quelle occasioni, nessuno di noi lo sentiva mai esprimere giudizi simili a verdetti, vocaboli o frasi di condanna verso chiunque. Mai, neanche nei periodi più complicati della sua esistenza, nei suoi modi, è emerso un indizio di rabbia, di rancore o risentimento. Il suo non era uno stile assolutorio oppure giustificativo: era bravissimo a sprofondarti nel mare dei dubbi. Le sue risposte erano molte volte delle domande del tipo: tu sei certo che sia davvero così? Sei sicuro che volessero farti un torto? Non ti viene il dubbio che ciò sia dovuto a un motivo diverso, magari del tutto differente? Non lo faceva per contraddire ma solo per aiutare l’amico con cui stava parlando, a pensare, ragionare, riflettere sulle situazioni, sui fatti, sulle persone, ma perché alle fondamenta, alla base, c’era una enorme bontà, un immenso altruismo, una infinita generosità. Anche quando era in situazioni di difficoltà, sulle quali non diceva mai nulla, il suo sorriso era sempre lo stesso, lo sguardo continuava a rimanere genuino, la sua battuta era sempre pronta, l’accoglienza che riservava a ogni persona era sempre premurosa, calorosa, festosa. Alla fine degli anni ottanta, un mio cambiamento di città mi portò molto lontano, e per un periodo di tempo davvero lungo. Ma quando incontravo Angelo, quando avevo l’opportunità di vederlo, sembrava che il tempo si fosse arrestato, che ci fossimo incontrati solo la sera prima. Ogni incontro, con lui, era all’insegna della festa, dell’allegria, della contentezza, della felicità, della gioia. Si conversava, ridendo, dei tempi passati e, seriamente, delle cose essenziali, importanti delle nostre vite. Il momento dei saluti finali era quasi sempre uguale: “Angiulì, vuoi sentire l’ultima barzelletta sui gesuiti!”. Anche la risposta era sempre uguale: “E vai!”. Nelle ore della serata di martedì, quando si sparse la notizia che Angelo era volato in cielo – mai, come nel suo caso, il nome fu tanto adeguato – cominciarono a intercorrere decine e decine di telefonate. In una di quelle conversazioni, mi fu rivolto “insistentemente” (situato fra virgolette perché è solamente un eufemismo!) l’appello a scrivere qualcosa su Angelo. “Ci penso!” fu la mia risposta tranchant, quasi liquidatoria. E così, escluso il giornalista eccellente, il professionista serio e preparato, lo studioso appassionato dei riti della Settimana Santa di Taranto, il commentatore con la voce inconfondibile delle dirette tv delle processioni, escluso il marito e il padre, a me non è rimasto da scrivere che dell’uomo e dell’amico. Lassù, avrà sorriso. Immagino la sua voce: “Dai, Emanue’! Ancora? Così, va bene!”.