Leoluca Orlando: la politica deve recuperare la sua dimensione etica
Gianni Liviano e la sua Associazione La città che vogliamo, ci hanno portato a Taranto un protagonista molto particolare della vita politica italiana. Stiamo parlando di Leoluca Orlando, per 22 anni sindaco di Taranto, oltre che deputato ed eurodeputato, promotore del movimento politico La rete. L’occasione è stata la presentazione del libro “Enigma Palermo”, svoltasi in Concattedrale, grazie all’ospitalità di monsignor Ciro Marcello Alabrese, che ha introdotto la serata, cui era presente un folto pubblico. Dopo la presentazione di Gianni Liviano, anch’egli politico atipico e spesso controcorrente, Leoluca Orlando, assieme a Costanze Reuscher, nota giornalista tedesca, coautrice del volume, è stato intervistato dal direttore di Taranto Buonasera, Enzo Ferrari. Anche noi abbiamo colto l’occasione per rivolgere alcune domande a Leoluca Orlando.
Lei è noto per le sue battaglie contro la mafia ma anche contro un certo modo di intendere il potere politico. Crede che la sua esperienza sia ancora possibile oggi? Quale traccia ritiene di aver lasciato?
Credo che possa essere utile l’esperienza che noi palermitani abbiamo vissuto e alla quale ho partecipato, che è quella di un rivolta morale della città. Palermo è una città carica di contraddizioni. È aristocratica e popolare, antica e moderna, pulita e sporca, mafiosa e antimafiosa, rumorosa e silenziosa. Non è una città del Sud d’Italia ma del Sud del mondo, come tante città: penso a Beirut, a Medellin. Quando Palermo non sarà più una contraddizione vivente sarà morta, e io spero di morire prima.
Un enigma, insomma, come indicato dal titolo del libro.
…Un enigma che si può traslare a Taranto, Barcellona ma anche Milano. Tra le due contraddizioni citate vi è una zona grigia, quanto più è ampia questa zona grigia, nella quale sguazzano i trasformismi, tanto più grande è lo spazio per il malaffare. Lo sforzo mio e dei palermitani è stato quello di ridurre la zona grigia. Perché si può essere diversi ma non si può rinunciare a una visione, ai propri valori e paradossalmente noi l’abbiamo recuperata grazie alla mafia. È drammatico doverlo dire: la mafia ha ucciso talmente tanto che alla fine nessuno ha potuto far finta di non vedere e dire: “non ci riguarda, è un problema egli altri”. Sull’onda di questa rabbia abbiamo scoperto la parte migliore della città, che ha fatto uscire tanti allo scoperto.
Inizialmente lei era considerato un isolato.
Sì, ma ero anche considerato ateo e comunista. Non sono mai stato né l’uno né l’altro, ma quando criticavo la mafia, gli uomini di chiesa collusi con la mafia dicevano che ero ateo. E mi faceva male sentirmelo dire, quando andavo in chiesa. Poi si è scoperto che atei e comunisti allo stesso modo erano Pietro Scaglione procuratore della Repubblica, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, il pool antimafia. E poi il cardinale Pappalardo, che diceva parole di verità contro la cultura mafiosa, e poi Giovanni Paolo II quando, nel 1993, nella Vallle dei Templi, si scagliò contro la mafia. Che ha risposto uccidendo don Pino Pugliesi, un sacerdote semplice, che non conduceva crociate; che la mafia la combatteva non chiedendo l’arresto dei mafiosi ma chiedendo la scuola per i bambini. E questo semplice sacerdote ha fatto più paura ai mafiosi delle armi dei poliziotti e delle sentenze dei magistrati. La sera che fu ucciso, vedendo i due killer, disse con grande calma “me l’aspettavo”. Il suo messaggio, in cui c’è una visione diversa della vita, è dirompente.
Cos’ha significato quell’omicidio?
Da quel momento è iniziato il vero cambiamento di Palermo, la rivolta civile delle persone. Un mese dopo sono stato eletto sindaco, con il 75% dei consensi e con me, nel movimento La Rete che avevo fondato, il primo degli eletti è stato Antonino Caponnetto il capo del pool antimafia. È iniziato un cammino virtuoso della città, non per chiedere l’applicazione della legge, ma per chiedere il rispetto dei diritti: no alla pena di morte, rispetto anche dei condannati, rispetto dei diversi a partire dal movimento gay, e poi l’accoglienza dei migranti, che sono essere umani come noi. Mi provoca un po’ di disagio costatare che l’unico che dice parole chiare sui temi della convivenza e dell’accoglienza è Papa Francesco. Quando questo compito spetterebbe alla politica.
Paradossalmente intanto la mafia, che si riteneva appannaggio della Sicilia, si è allargata su territori molto più visti.
Il cambiamento di Palermo non consiste nel fatto che la mafia non c’è più. Ma la mafia è a Palermo come a New York, a Parigi, a Londra, a Milano… Ma non governa più Palermo. Per me questo processo è iniziato quando è stato ucciso Piersanti Mattarella, un cattolico democratico impegnato in politica del quale ero consigliere giuridico. Quando mi sono sposato, 52 di anni fa, era al mio matrimonio. Davanti al suo corpo, ucciso dai mafiosi, gli amici i parenti, gli uomini impegnati mi hanno detto: “non puoi consentire che Piersanti muoia la seconda volta, sei un giovane professore universitario, non hai mai incontrato i politici che lo hanno ucciso e sei un poco pazzo…”
Un poco pazzo lo era davvero!?
Sì, perché occupavo la facoltà di giurisprudenza della quale mio padre era il preside… Non ce l’ho fatta a dire di no. Da quel momento comincia la mia esperienza, carica di eccessi, carica anche di polemiche…
Tra le quali l’incomprensione con Falcone. Da cosa nasceva?
Nel libro ne parlo a lungo perché certamente questo è uno dei capitoli più sofferti. Per me Giovanni Falcone era e rimane un punto di riferimento importantissimo. C’era un bellissimo rapporto tra di noi. Io ho celebrato il suo matrimonio con Francesca un sabato sera, in gran segreto per ragioni di sicurezza. Eravamo presenti solo io, i due sposi, due testimoni che erano Caponnetto e un’amica di Francesca, e sua madre. Non c’erano fotografi, confetti o champagne. Poi con Giovanni e Francesca e mia moglie Milly siamo stati due settimane in Russia: abbiamo vissuto una condivisione molto profonda. Poi negli anni Novanta, durante il maxiprocesso, mi giunge la notizia che qualcosa non andava alla procura di Palermo. Io ho espresso le mie riserve, non certo nei confronti di Falcone ma nei confronti del procurato capo Pietro Giammanco, che era legato al gruppo di Andreotti, che bloccava le inchieste. La sofferenza di Giovanni era di non aver elementi per incriminare politici per l’omicidio di Mattarella, di non poter incriminare politici per l’omicidio di Pio Latorre e di non poter andare avanti. Ha vissuto un momento di grande sofferenza, tant’è che ha lasciato Palermo e se n’è andato a Roma.
Lei invece non accettava che si tacesse.
Io ho cercato di fare il mio dovere nell’insistere a denunciare ciò che non andava. Perché il politico per prendere posizione non deve avere le prove, deve avere la sua autonomia di giudizio. Io rivendico il mio diritto, ad esempio, di parlare bene di un condannato. Perché anche Mandela, Gandhi e prima ancora Gesù Cristo furono condannati da tribunali sebbene innocenti, ma non vorrei per questo che Marcello Dell’Utri pensi di essere Gandhi. Così rivendico il mio diritto di parlar male di un assolto. Su Andreotti, che si dice sia stato assolto – ma non lo è stato – il mio giudizio non cambia. Siamo stanchi di sentire politici che “attendono con fiducia l’esito del processo” e intanto rimangono al proprio posto. La politica dovrebbe avere la capacità di scegliere e selezionare altrimenti diamo la responsabilità di decidere ai magistrati. Io sono contrario ad affidare ai magistrati la selezione della classe dirigente di un paese, perché ognuno deve fare la propria parte. La politica deve recuperare la propria dimensione etica a prescindere dalle sentenze dei tribunali.