Fossili: verso i titoli di coda?
Per la prima, primissima volta in un’assemblea delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si cita, con intenzione e senza sottintesi, il superamento delle fonti fossili, ma è assente, manca sia la parola “uscita”, sia uno schema, un progetto dettagliato, con tappe come in una tabella di marcia, in vista dell’obiettivo da raggiungere. Una formula “gianica”, bifronte quella adoperata, “transitioning away”, che però ha consentito il raggiungimento di un accordo, salutato come “storico”. Per la prima volta, in effetti, si dichiara, per iscritto, la perentorietà di un superamento delle fonti fossili di energia. La combustione del carbone, del petrolio e del gas provoca circa i tre quarti delle emissioni che alterano il clima, mentre anche la parte restante è di origine antropica perché è dovuta alla deforestazione e all’agricoltura non sostenibile. In tutte le conferenze dell’ONU sui cambiamenti climatici, incominciate nel 1995, i combustibili fossili sono sempre stati una presenza incombente, ma, nel contempo, invisibile, muta e piuttosto inquietante, conosciuta da tutti, ma da nessuno nominata. Nei documenti di allora, si scriveva di riduzione di emissioni, ma senza agganci a ciò che va fatto. Nel documento finale della COP 28 di Dubai, meno male, lo si scrive, di sicuro non in termini di “phase out” (cioè di eliminazione progressiva), ma di una più ambigua “transitioning away”. D’altro canto, sarebbe stato impossibile conseguire altrimenti un compromesso fra i quasi 200 paesi con interessi divergenti e raggiungere, anche se con riserve, il consenso totale. L’accordo è stato approvato da tutti, dai grandi paesi come gli Stati Uniti, primi per emissioni pro capite, e la Cina, prima per il totale, e quelli che estraggono i fossili, come la Russia e l’Arabia Saudita, così come da quelli più esposti, le piccole isole a rischio di scomparsa per l’innalzamento del livello dei mari, e quelli in via di sviluppo, più determinati ad agire. Per gli Stati Uniti, “COP 28 è una ragione per essere ottimisti in un mondo di conflitti”. Per l’Unione europea l’accordo segna l’inizio dell’era post-fossile. Papa Francesco, nell’intervento alla COP 28 letto dal Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, ha scritto che il “cambiamento climatico è un problema sociale globale … è intimamente legato alla dignità della vita umana”. Proprio in vista della conferenza di Dubai, aveva scritto la «Laudate Deum», l’esortazione apostolica per richiamare alla responsabilità nei confronti dei nostri figli e del pianeta, dando ascolto al grido della terra e dei poveri. La Conferenza, iniziata il 30 novembre, si è chiusa così soltanto con un giorno di ritardo e con un risultato tangibile, frutto anche della furbizia e della scaltrezza del presidente di COP 28, Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato della prima compagnia petrolifera degli Emirati e della compagnia statale di energie rinnovabili, ministro dell’industria e della tecnologia avanzata. L’accordo riguarda il “Global Stocktake”, una specie di sosta ai box per fare un bilancio dell’azione climatica globale per ridurre i gas serra e giungere, entro il 2050, a emissioni zero. Oggi, per tutti i paesi del mondo, inizia il tempo dei compiti a casa, perché il clima non risponde di certo ai pezzi di carta, ma alle azioni. Le emissioni, di fatto, continuano ad aumentare, così come le temperature e i conseguenti fenomeni estremi, come ondate di calore, lunghi periodi di siccità, alluvioni, inondazioni, allagamenti. Se da un punto di vista scientifico restano sul terreno di gioco viva insoddisfazione e forte preoccupazione, dal punto di vista politico la COP 28 compie un passo in avanti. Per il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, questo è un “compromesso bilanciato e accettabile”. Il documento approvato mantiene il riferimento alla necessità di triplicare le rinnovabili e di duplicare l’efficienza energetica entro il 2030, uno dei risultati dei primi giorni dei lavori di COP 28. Entra, per la prima volta nel testo finale il nucleare, dopo l’accordo di venti paesi diretto a triplicare la potenza entro il 2030. Si parla di velocizzare la adozione di recenti tecnologie, compreso il ricorso all’idrogeno e l’abbattimento delle emissioni tramite la cattura del carbonio, innanzitutto nei settori più problematici, come la produzione di acciaio e di cemento. C’è spazio per confrontarsi sulle possibili soluzioni. Adesso, però, tutti i paesi convengono, non solo gli uomini di scienze: la crisi climatica si può mitigare con una “transizione in uscita” dai fossili. Proprio su come attuarla si dovrebbe tenere il dibattito: in Italia, invece, molti non hanno ancora capito come non sia affatto una questione solo ambientale e continuano ancora a diffondere disinformazione sul clima. Gli scienziati ci avvertono che la crisi climatica colpirà l’Italia più che altri paesi: è obbligatorio l’adattamento locale per gestire l’inevitabile, mentre la riduzione globale dei gas serra deve evitare l’ingestibile. L’Italia è più vulnerabile a causa degli abusi perpetrati a un territorio già fragile. Il nostro Paese, d’altra parte, ha soltanto da guadagnare da un’equa transizione energetica, privo come è di fonti fossili ma ricca di sole e di vento. Forse è meglio pensare alle soluzioni, che a negare la realtà.