E se il caso Oakland si moltiplicasse?
Dai frammenti di politiche estere edificate su coalizioni interessate ed egoiste da parte delle diplomazie di tutti gli stati, dalle macerie del diritto internazionale e dell’Onu, è germogliata la risonanza di una sentenza che, per i rapporti di forza presenti oggi nel mondo, rischia di apparire una elevata posizione di principi, distanti, però, dalla necessità e dalla urgenza di arrestare subito le carneficine in corso nei territori israelo-palestinesi. Perché vittime ce ne saranno ancora. Compito della Corte internazionale di giustizia dell’Aia non era di deliberare se ciò che fa Israele è genocidio o meno, ma solo se aveva giurisdizione sul caso e se era ammissibile l’imputazione per genocidio chiesta dal Sudafrica: in sostanza, se tutto ciò che è accaduto in questi mesi nella Striscia di Gaza, si può inserire fra le violazioni della Convenzione contro il genocidio, sottoscritta anche da Israele. La Corte, nel respingere la istanza di Israele di archiviare l’accusa presentata dal Sudafrica, ha dichiarato che il contrassalto da parte delle forze di difesa israeliane rappresenti un genocidio e ha confermato che lo Stato di Israele è imputato di genocidio. Un risvolto, questo, non certo atteso o previsto. Non era proprio facile imboscare gli oltre ventimila morti fino a questo momento, per lo più fra i civili, le migliaia di bambini ammazzati, le migliaia di feriti e di mutilati, oltre la metà delle costruzioni rase al suolo, il sistema umanitario della Striscia fatto a pezzi, gli aiuti alimentari e sanitari negati per quasi due milioni di persone in fuga sotto le esplosioni e alla miseria, mentre il personale medico e infermieristico e delle organizzazioni internazionali umanitarie, i giornalisti e i reporter di guerra vanno a finire nelle fosse comuni. Non è una piccolezza: ne sono attestazione, ne sono prova le reazioni del premier Benjamin Netanyahu che accusa la Corte di “oltraggio” e di parecchi ministri israeliani, quello della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, che bolla la Corte come “antisemita” e quello della Difesa, Aluf Yoav Gallant, secondo il quale “la Corte è andata oltre accettando la richiesta antisemita del Sudafrica”. E non è certo una piccolezza il fatto che a decidere per la risoluzione approvata dai giudici ci sono stati alcuni membri “indipendenti” ma appartenenti a paesi apertamente filo-israeliani come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Australia. Questa è la parte decisiva e delicata: la sentenza non ordina il cessate il fuoco. La Corte ha chiesto a Israele di attuare misure per prevenire atti di genocidio nella Striscia di Gaza, di prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere un genocidio dei palestinesi. Ha, infine, dato un mese di tempo a Israele per riferire alla Corte sulle misure prese senza “alterare prove”, e deve consentire il passaggio degli aiuti umanitari. La Corte, che ha chiesto anche la liberazione degli ostaggi, obbliga Israele ad adottare misure per proteggere i palestinesi. Ma non gli ordina di cessare le operazioni militari nella Striscia di Gaza. Ma chi può farlo allora? Non serve ricordare che la stessa Corte, invece, nel 2022 impose il cessate il fuoco alla Russia per l’aggressione all’Ucraina e che l’imposizione rimase inesaudita. È evidente che questa sentenza richiami in modo indiretto il ruolo del Consiglio di sicurezza dell’Onu, immobilizzato dai poteri di veto dei membri permanenti, tanto che l’Algeria, membro permanente per gli anni 2024 e 2025, ha invocato la convocazione del massimo organismo “per dare effetto vincolante alla decisione della Corte”. Riemerge spesso il protagonismo e la solidarietà post-coloniale di una parte del Sud del mondo che non dimentica certo i massacri coloniali nel nord-Africa, Mandela che metteva sullo stesso piano la liberazione dall’apartheid del Sudafrica all’indipendenza della Palestina, il sostegno di Israele ai misfatti del regime sudafricano, che sa bene che la ipotesi di “due popoli, due stati” è una chimera se prima di tutto non si riconosce che fino a oggi c’è soltanto uno Stato, quello di Israele, e che quello palestinese, nato male e finito peggio, ora è del tutto cancellato dagli insediamenti coloniali che ne comprimono la persistenza territoriale. È un protagonismo che sulla catastrofe di Gaza sfida a viso aperto gli Stati Uniti, se si pensa che si è svolta la prima udienza, nell’aula del tribunale federale di Oakland, in California, del processo contro il presidente americano Joe Biden, il segretario di Stato Anthony Blinken e il ministro della Difesa Lloyd Austin, messi sotto accusa per concorso in genocidio per il sostegno politico-militare fornito a Israele e per omissione di diplomazia volta a fermare la strage di inermi civili palestinesi. Da oggi in poi, se le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza sono azioni di genocidio, c’è allora il pericolo che finisca davanti a una corte chi mette in atto reticenze politiche che riconoscono la vita e i diritti di ogni essere umano solamente a parole.