Quella dignità calpestata
Di quanto succedeva là dentro, non parlava mai. Di ciò che vedeva all’interno, non raccontava niente. Don Antonio Marzia, per diversi anni cappellano della Casa Circondariale di Taranto, parlava molto di rado del carcere o delle traversie dei detenuti. Non con tutti: chi scrive, aveva il privilegio di appartenere a quella ristretta cerchia di persone. Narrava di gente che, scaraventata là dentro per la prima volta, gridava, piangeva, soffriva, si disperava. Di giovani, a volte fin troppo giovani, che arrivavano in pieno inverno senza calze ai piedi e con gli infradito da mare o, addirittura, con gli indumenti leggeri. Di esseri umani che avevano alle spalle delle esistenze sbilenche o in compagnia di pensieri tenebrosi e con l’anima e il cuore a pezzi. Di uomini che vagavano per le strade dell’inferno e che speravano comunque in una parola di consolazione. Vedendo un recluso, un essere umano, una persona, con polsi chiusi con le manette e con i piedi attaccati da ceppi di cuoio con i lucchetti e con una cinta in vita con una catena, don Antonio si sarà rivoltato nella tomba. Mai nessuno, nemmeno Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro, Raffaele Cutolo, neanche il peggiore dei criminali, è stato mai trattato in quel barbaro modo. La foto di Enzo Carra in manette è rimasta per sempre nella memoria, diventando il segno di una delle pagine più scure della giustizia italiana. Quella foto fu all’origine di cambiamenti nella cultura garantista dell’Italia: ebbe l’effetto di modificare anche la deontologia giornalistica, con delle nuove regole volte a impedire di pubblicare la foto di un indagato con le manette ai polsi. Sì, perché c’è un punto di dignità che non è barattabile e non la si può negare a nessuno, nemmeno a chi si è macchiato dei più orribili delitti. Quel punto è legato al rispetto dei diritti umani, della Carta Costituzionale, delle regole internazionali. Davanti a quella vista che costringe a pensare e non a chiudere gli occhi, si dovrebbe cominciare a riflettere, ma sul serio, sui concetti di custodia cautelare, trattamento umano del recluso e tortura. Fu nel gennaio del 2013 che la Corte europea dei diritti dell’uomo – ha sede a Strasburgo ma non fa parte dell’Unione europea – espresse la condanna dell’Italia per la violazione della Convenzione europea dei diritti umani. Il procedimento riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti da diversi detenuti che, per molti mesi, furono costretti a vivere in celle triple con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Molta fu l’indignazione e la Corte europea di Strasburgo costrinse l’Italia a correre ai ripari: negli anni successivi, in tutte le carceri italiane ci fu una vera e propria rivoluzione al fine di garantire a tutti i detenuti una vita degna di un essere umano. E adesso, vedere Ilaria Salis, attualmente detenuta in Ungheria, con i polsi chiusi con le manette e i piedi stretti con ceppi di cuoio con i lucchetti, costringe a domandarsi: dov’è finita l’Europa? Dove sono finiti coloro i quali hanno emesso quel responso di condanna? “La carcerazione – fu scritto nel verdetto – non fa perdere al detenuto i benefici dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona reclusa può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la fragilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi sotto la responsabilità dello Stato”. E nel caso di Ilaria Salis, che è in preda a un profondissimo sconforto, manca il rispetto della dignità umana e quello che la Corte definisce “benessere del detenuto da assicurare adeguatamente”. L’Europa non ha mosso nemmeno un dito e l’Italia solamente adesso e molto timidamente ha iniziato ad attivare i canali diplomatici con l’Ungheria. Qualcuno ha affermato a gran voce che, in fondo, la ragazza merita di stare in prigione. Va precisato che la ragazza è in cella in Ungheria da più di un anno, in attesa di giudizio, ed è accusata del reato di lesioni, ai danni di due militanti dell’ultra destra. Questa precisazione è a beneficio di tanti scappati dall’asilo nido che sono in Parlamento o al Governo e che non hanno mai dato una occhiatina neanche all’indice di un testo di educazione civica. Il reato di lesioni ha una precisa collocazione, sia nello spazio che nel tempo: è un’azione compiuta in un preciso luogo, in un preciso momento, che ha un inizio e ha una fine. Quel che c’è prima e dopo non conta, così come non conta se il reato di lesioni è fatto da un’attivista di sinistra o è compiuto ai danni di un militante di destra, ma è rilevante se l’aggressore è un lottatore di arti marziali o se l’aggredito è un mutilato sulla sedia a rotelle. Ci si dovrebbe vergognare tutti, proprio tutti – le Assemblee legislative, i poteri esecutivi e i cittadini di ogni paese dell’Europa – per questo atteggiamento dell’Ungheria che, va ribadito, fa parte dell’Unione europea, della Nato e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Ciò che sbalordisce, in tutta questa vicenda, è il mutismo, il silenzio, la noncuranza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo: finora, nessun avvio di inchiesta, nessuna apertura di fascicolo, nessun inizio di procedimento. Niente. Niente di tutto ciò. La speranza è che ci siano dei giudici a Strasburgo che abbiano visto quelle immagini. Rimanere inerti sarebbe una vera e propria complicità nella violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella violazione della Dichiarazione universale dei diritti umani.