L’odissea dei ‘bambini farfalla’ sotto le bombe di Gaza
“La situazione è gravissima. Non riusciamo a reperire e far arrivare i dispositivi medici necessari per curare questi bambini. Sono malati che hanno bisogno di particolari trattamenti che in queste condizioni è impossibile dare”. Nell’inferno di Gaza a soffrire, insieme a migliaia di bambini con le loro famiglie, ce ne sono alcuni, circa 70 secondo le stime, affetti da epidermolisi bollosa (Eb), una rara malattia genetica che provoca bolle e lesioni in corrispondenza della pelle e delle mucose interne.
Vengono chiamati ‘bambini farfalla’ perché non possono essere toccati o abbracciati; anche un semplice contatto potrebbe recare loro danno e dolore come quello di ulcerazioni e di ustioni di terzo o quarto grado. Bambini fragili come le ali di una farfalla. In casi particolarmente gravi la malattia va a colpire mani e piedi che non hanno unghie così da rendere molto difficile il loro uso. Spesso, per non provocare dolore, i genitori evitano anche di abbracciarli e baciarli. Un bacio e un abbraccio che nella Striscia di Gaza, oggi, sono le uniche medicine disponibili per i bambini. Ma non per i bimbi farfalla.
L’odissea. A raccontare l’odissea di questi bambini è Umar (nome di fantasia, ndr) un infermiere che lavora in un ospedale di Gaza e che collabora al progetto “Aiuto ai bambini farfalla” avviato sul finire del 2020 dalla parrocchia latina della Sacra Famiglia, l’unica cattolica della Striscia con i suoi poco più di 100 fedeli, coadiuvata da Pro Terra Sancta, l’ong della Custodia di Terra Santa. Prima del 7 ottobre il progetto aveva in carico 38 bambini sui circa 70 segnalati nella Striscia e i volontari, tra cui Umar, passavano di casa in casa a bendare, stendere creme, pulire le lacerazioni epidermiche dei bambini e a insegnare ai familiari come lavarli e curarli. In mancanza di una cura risolutiva questa ‘sindrome’ può essere trattata solo adottando cure e rimedi come la fisioterapia, scarpe speciali, creme, antibiotici, bende con cui evitare che le lesioni entrino in contatto con gli abiti e producano infezioni. Tutte esigenze che nella Striscia di Gaza, ridotta in macerie, con gli ospedali quasi tutti fuori uso, è impossibile soddisfare.
In cerca delle famiglie. Umar lo sa bene, per questo, spiega, “nonostante il progetto sia fermo a causa della guerra, sto cercando di contattare tutte le famiglie che avevamo in cura. Purtroppo, solo due hanno risposto ai messaggi. Mi hanno detto che da Nord, dove vivevano, sono andate a sud della Striscia come imposto dall’esercito di Israele. Oggi vivono nelle tende, praticamente all’aperto, al freddo, in condizioni igienico-sanitarie impossibili e non c’è nessuno che assista i loro figli affetti dalla sindrome. Non è possibile raggiungerli perché è molto pericoloso muoversi e si rischia di essere colpiti dai cecchini. Le altre famiglie non hanno risposto ai messaggi, non so dove siano, se sono ancora vive”.
“Siamo preoccupati, questi bambini non possono vivere a lungo in queste condizioni”.
A cercare di tenere i contatti con queste famiglie di Gaza è anche Gianna Pasini, un’infermiera di Brescia da tempo impegnata ad aiutare i bambini farfalla con la onlus Pcrf-Italia, che fa capo alla ong palestinese Palestine Children’s Relief Fund (Pcfr), il cui scopo è migliorare la qualità dei servizi sanitari pubblici in Palestina e prestare cure domiciliari alle famiglie dei bambini portatori di epidermolisi bollosa nella Striscia di Gaza. Pasini ha anche scritto un libro su questo progetto, in arabo e in italiano, che si intitola “Storia di una bambina farfalla” (Edizioni Q). Il volume racconta la vita di una bambina farfalla trascorsa tra cure dolorose, aule di scuola e desideri da realizzare (il ricavato del libro è interamente devoluto al progetto di Pro Terra Sancta, ndr.).
Gravi condizioni. “In questi giorni stiamo cercando di far arrivare dall’Italia delle medicine a Gaza, tramite la Mezzaluna rossa ma ci sono tante difficoltà burocratiche. Nel frattempo, grazie anche a Umar, si cerca di tenere vivi i contatti con le famiglie di questi bambini assistiti dal progetto, ma è molto difficile perché le linee telefoniche sono saltate. Sappiamo che una famiglia è bloccata al nord perché il proprio figlio, affetto da EB, non è in grado di muoversi. Una mamma ci ha contattato per chiedere aiuto ma non sappiamo dove si trovi esattamente. Di un altro bambino seguito dal progetto arrivano notizie di un peggioramento di condizioni e che è pieno di piaghe per mancanza di cure. Attualmente vive nella zona di Rafah, sottoposta a bombardamenti, in una tenda con otto persone della sua famiglia. Ci sarebbe poi un altro piccolo paziente la cui famiglia è divisa. Il padre, un maestro di professione, è sceso dal nord verso sud per trovare una sistemazione per la sua famiglia che però ancora non è riuscita a raggiungerlo”.
Nonostante la guerra Umar e Gianna non smettono di lavorare per questi bambini farfalla perché, dicono, “vogliamo che continuino a volare” magari anche su uno degli aerei della nostra aviazione che stanno portando in Italia tanti bambini gazawi malati e feriti.