Nella crisi epocale della democrazia americana
Guilty. Trump è guilty. Non una volta sola, ben trentaquattro volte: colpevole. Tante quante erano le violazioni di legge a lui attribuite e studiate, nel corso di un processo durato un paio di mesi, da una giuria popolare. Nel marzo dello scorso anno, cioè quando un’altra giuria popolare aveva stabilito che esistevano le basi per aprire un processo penale contro di lui, Trump era diventato il primo caso di un presidente, chiamato come imputato, al cospetto del tribunale penale. Così era incominciata la storia, che ora si è conclusa. Fino a giovedì, Trump era il primo presidente imputato: adesso è il primo presidente dichiarato colpevole dalla autorità giudiziaria del Paese che ha governato e che potrebbe, da colpevole, tornare in futuro a governare. La storia continua, considerato che questo processo è il meno rilevante dei quattro aperti, per un totale di 89 capi d’accusa contro Trump. Le altre inchieste riguardano il suo ruolo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, i suoi tentativi di frodi elettorali in Georgia e Arizona, nelle presidenziali del 2020, e la appropriazione indebita e l’indebito maneggio di documenti segretissimi, mesi fa rinvenuti dalla polizia nella sua villa, in Florida. Come ha potuto un personaggio come Trump, arrivare fino alla presidenza degli USA? Come è possibile che, dopo aver perso la corsa alla rielezione, e poi cercato di rovesciare l’esito del voto, questo personaggio possa ora da colpevole sperare di essere rieletto? L’analisi di questo processo appena terminato a New York non solo non offre risposte, ma non fa che riproporre in termini ancor più drammatici una serie infinita di interrogativi. Ha comportato una contingenza senza precedenti nella storia americana e, oltre a ciò, ha reso impossibili le previsioni sulle elezioni del prossimo novembre. È la prima domanda: Trump, in quanto colpevole e fra non molto condannato, può votare? Può essere candidato? La risposta è sì: è stato condannato a New York, dove la legislazione non contempla la perdita del diritto del voto in caso di condanne penali. Può essere candidato, proprio come lo fu Eugene Victor Debs, lo storico sindacalista e attivista socialista che era addirittura detenuto nel carcere di Atlanta quando corse per la presidenza nel 1920. Era stato condannato, a 10 anni di carcere, per la sua opposizione alla partecipazione degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. La seconda domanda: le sue possibilità di vittoria diminuiscono? Non è dato per sicuro. Trump ha una approvazione solidissima fra gli elettori repubblicani e l’intero partito lo favorisce: perfino Nikki Haley, la sua concorrente nelle primarie fino a poche settimane fa. Questa base di consenso lo ha mantenuto allo stesso livello di Biden nei sondaggi fino a oggi e, addirittura, in vantaggio nei cosiddetti Swing States, (la traduzione che rende meglio l’idea è “stati altalenanti”), cioè negli stati in cui il risultato si gioca sul filo di poche migliaia di voti. Sono soltanto mezza dozzina, Wisconsin, Pennsylvania, Nevada, Michigan, Georgia e Arizona, ma stringono nelle mani dei loro elettori le chiavi della Casa Bianca. La stranezza del sistema elettorale statunitense è che consente di trionfare alle elezioni chi ha avuto meno voti su scala nazionale, ma ne ha avuti di più nei collegi elettorali, cioè fra i delegati che alla prova dei fatti eleggono il presidente. Questo è esattamente ciò che successe nel 2016, quando Hillary Clinton raccolse quasi tre milioni di voti più di Trump ma non ebbe la maggioranza nei collegi elettorali perché il suo antagonista prevalse in Wisconsin, Minnesota e Michigan, con 77.744 voti in più, su oltre13 milioni di voti validi nei tre stati. E negli stessi stati e nella Georgia, Biden vinse, ma con troppo affanno, nel 2020: per esempio, in Georgia raccolse appena 11.000 voti in più di Trump, che cercò di rovesciare il risultato estorcendo la leadership repubblicana di quello Stato. Vicenda che è oggetto di un altro dei vari processi dell’ex presidente. Su scala nazionale Biden conseguì circa sette milioni di voti più di Trump. Questa totale incertezza da un lato impedisce di fare delle previsioni fondate perché mancano ancora cinque mesi alle elezioni e in questo periodo può accadere di tutto e il contrario di tutto. Dall’altro, i minimi spostamenti negli stati chiave fanno pensare che anche un numero molto limitato di elettori autonomi, sconcertati per la colpevolezza di Trump – verrà emanata l’11 luglio prossimo – potrebbero cambiare convinzione e astenersi oppure votare per Biden. I sondaggi reputano che questi elettori siano il sei per cento dell’intero corpo elettorale: pochi, ma è un numero sufficiente a far pendere il piatto della bilancia da un lato o dall’altro. Ma al quadro poco consolante contribuisce Trump che, per la seconda volta, corre per la conquista della Casa Bianca. Un personaggio che lo scrittore americano Percival Everett definì “un mix di narcisismo, ritardo nello sviluppo e limitata intelligenza” e che è a capo di una forza antidemocratica in cui sono radunate, nella forma del culto personale, le più feroci aree sociali e politiche cospirative, eversive, settarie, razziste, segregazioniste e sovversive che, non da oggi, scorrono nel sangue della più antica democrazia della storia. E la storia che il processo di New York e la condanna di Trump raccontano è proprio questa: quella della crisi epocale della democrazia statunitense. In quale modo finiranno questa storia e questa crisi si saprà solamente dopo il 5 novembre.