Il male oscuro dell’astensionismo
Ogni riferimento a persone o fatti davvero accaduti è intenzionale. Ogni elemento di identificazione è volontariamente omesso. È un dialogo fra due eletti, uno dei quali discepolo del Razzi-pensiero. “Siamo stati eletti e che ci importa dell’astensionismo? Immagina, invece, se ci fossero andati a votare e avessero votato per quelli là! Saremmo stati silurati tu e io! Il numero degli eletti si sa già: ora tu supponi che il numero si stabilisca calcolando i votanti! Sarebbero stati trombati quasi un terzo degli eletti! Poi? Mi metto a lavorare? Per fare che cosa?”. L’opera buffa ideata dal seguace del senatore Razzi è la reazione di fronte al problema dell’astensione. Da tempo oramai lo sentiamo sottolineare, ma sono parole al vento, perché i partiti, appena scrutinate le schede, guardano da un altro lato. Ma finché l’astensione è solo un piccolo brusio di fondo, un malessere appena avvertibile, conficcare la testa nella sabbia per non vedere il problema può essere una idea forse perdonabile, anche se molto irragionevole. Ma se il problema si fa serio e i non-votanti superano i votanti – come è accaduto, per la prima volta in Italia, con queste europee – allora nascondere il malessere sotto il tappeto è solo un modo per aggravare la situazione. La diagnosi è inequivocabile: la nostra democrazia si è presa il virus dell’indifferenza, che attacca i gangli vitali di un sistema politico-democratico. Nella democrazia dell’indifferenza, i segni della malattia sono evidenti da tempo, ma aver sfondato con le europee la soglia del cinquanta per cento del non-voto ha reso il malessere più acuto. Basta esaminare i numeri: nel giro degli ultimi due decenni, l’Italia ha lasciato per strada oltre dieci milioni di elettori, cioè mezzo milione di votanti ogni anno ha deciso di restare a casa, di non esercitare il proprio diritto – dovere elettorale, gonfiando, sempre più, le vele dell’astensionismo. Negli ultimi venti anni, un elettore su quattro ha rimesso i remi in barca e tale tendenza si registra sia alle politiche che alle amministrative. Così facendo, basterà arrivare alle prossime europee per assistere a una elezione a cui prende parte un quarto dell’elettorato. Il dato importante di queste elezioni è la astensione di cui la politica se ne duole a parole ma se ne allieta in cuor suo. Minore è la percentuale dei votanti, maggiore diventa la percentuale di galoppini, a meno che la percentuale non precipiti senza misura, determinando una protesta di massa che diventerebbe rumorosa, forse pure a livello di una protesta seria. E cosa ci dice l’analisi del voto? Che la destra e la sinistra moderata all’italiana sono la formula preferibile, come proverebbe anche il caso dell’estrema destra francese, divenuta in poco tempo destra moderata cambiando, in apparenza, il teatro, il direttore, l’orchestra, gli spartiti, gli strumenti musicali, i musicanti e la musica, tanto da sorpassare il partito di Macron e costringerlo ad andare alle urne? Che i centristi reggono o perdono a seconda del carisma dei loro leader? Che la sinistra, provando con qualche simbolo efficace, è tuttora viva, anzi potrebbe risorgere? E che un generale diventa il prode del momento sull’onda di slogan più che di proposte politiche, mai esposte? Forse è tutto maledettamente vero ma, anzitutto, è vera la foto di un paese ostaggio di una casta politica inamovibile anche perché votata dagli italiani, che magari saranno anche solo la metà. È da trenta anni che l’Italia sprofonda sempre più in basso e, a ogni elezione, chi vince è la classe politica e i suoi galoppini, dai più vicini alla casta, ai più lontani. E chi perde sempre sono tutti gli altri.