L’Unione e la destra fuorigioco
Non è necessaria una particolare capacità di prevedere gli sviluppi del presente, né l’attitudine di captare e capire ciò che è sottinteso in un discorso, in una intervista o in una dichiarazione alla stampa. È sufficiente solo leggere. “È evidente che nel Parlamento europeo non deve esserci un sostegno per il presidente della Commissione europea che si basi su partiti di destra e su populisti di destra”. È il segnale lanciato dal cancelliere tedesco Olaf Scholz a cui è seguito un messaggio ugualmente “poco” light. “La Commissione europea condanna la simbologia fascista, e la crede inappropriata ed errata moralmente”. Così ha detto Eric Mamer, portavoce principale della Commissione, rispondendo a una domanda in conferenza stampa sulla videoinchiesta di Fanpage.it che ha fatto vedere membri del movimento giovanile di Fratelli d’Italia e alcuni deputati del partito mentre fanno il saluto romano. Infine, analogamente “poco” soft il terzo. “Non è mio compito convincere Giorgia Meloni, abbiamo già una maggioranza con popolari, liberali, socialisti e altri gruppi e la mia sensazione è che sia già più che sufficiente”. E queste sono le parole, abbastanza liquidatorie, del premier polacco, Donald Tusk, mediatore per i popolari con il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, per le più alte cariche al vertice dell’Unione. La maggioranza di cui ha parlato Tusk è quella per riconfermare sia Ursula von der Leyen che Roberta Metsola, entrambe dei popolari, partito egemone nel Parlamento europeo. Così i popolari sarebbero ancora alleati con i socialisti – a cui andrebbe la presidenza del Consiglio europeo con il portoghese Costa – mentre quella di rappresentante per gli affari esteri andrebbe a una esponente liberale dell’Estonia. È l’intesa fra Macron, Scholz, Sanchez siglata al G7 nell’incontro a tre da cui non a caso Giorgia Meloni, la padrona di casa, è stata esclusa. Anche se Meloni ha vinto le elezioni e Macron e Scholz le hanno perse, resta il fatto che, a Bruxelles, l’equilibrio politico esclude dalla stanza del potere qualunque partito di destra. E così come era stato previsto da molti osservatori, Giorgia Meloni, con il suo ECR, ossia il Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei – un tempo in prevalenza di centrodestra, ora di estrema destra –, è rimasta completamente ai margini della mediazione per le nomine europee. I risultati delle elezioni hanno attestato la poco decisiva crescita delle destre, che hanno conquistato un numero di seggi insufficiente a imporre un cambiamento radicale nelle strategie dei gruppi principali. Così, la nuova Europa sognata da Meloni, che sarebbe dovuta scaturire da una nuova coalizione capace di sostituire quella, per lei, innaturale fra popolari, socialisti e liberali, non sembra realizzabile. L’alleanza fra i popolari e i due gruppi di destra si avvicina ma non raggiunge la metà dei seggi nel Parlamento europeo, mentre ci riesce quella “innaturale” fra socialisti, popolari e liberali. Ma l’alleanza più solida è proprio quella nel Parlamento, nel quale le dimensioni principali della competizione politica sono due: oltre a quella economica sul piano sinistra-destra c’è anche quella politico-istituzionale a livello europeismo-sovranismo. Rispetto a questa seconda dimensione la convergenza di punti di vista fra i popolari e gli altri due gruppi del nucleo europeista è massima e bilancia le non decisive divergenze sulla dimensione economica. Il tentativo di Meloni di essere ancor più determinante rendendo possibile la conferma della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, non ha riscosso successo nonostante l’esito del voto di giugno. Certo, c’è sempre la possibilità che, nel segreto dell’urna, proprio Ursula – che conta su un vantaggio di quasi una quarantina di voti oltre la maggioranza richiesta di 361 sì – possa essere impallinata dai “franchi tiratori”, e allora vari giochi si potrebbero riaprire. In questa situazione, e con queste condizioni, all’Italia non rimane grande spazio di manovra. Può continuare a chiedere, così come è stato fatto fino a ora, uno o due posti nella futura Commissione europea: una vice presidenza e l’incarico di commissario europeo per gli affari economici – ossia quello attualmente ricoperto da Paolo Gentiloni – o, nella peggiore delle ipotesi, l’incarico di commissario europeo per la concorrenza. Per quelle posizioni, la Meloni potrebbe proporre dei nomi politici che però porrebbero problemi di rimpasto di governo, o di tecnici tenuti in grande considerazione nel quadro europeo, ma è nota la avversione, o meglio, la idiosincrasia della presidente del Consiglio verso tecnici e incaricati. Ma, probabilmente, questa è una partita che si giocherà a porte chiuse, a stadio vuoto, a telecamere spente e con il campo coperto dal tetto per il timore di ipotizzabili riprese dall’alto con i droni. Forse anche questo è un motivo per meditare su quanto detto da chi di Europa se ne intende, Romano Prodi. In una intervista a Repubblica, ha spiegato: “Meloni ha un problema: non è di destra, è ambidestra … Deve scegliere con quale destra si vuole alleare, e non è semplice”. Ma, a partita finita, avremo ampie assicurazioni del fatto che un ruolo nelle nomine europee le destre lo avranno avuto. Ma se come parti attive, lo capiremo da soli.