Fine vita, urge l’intervento del legislatore
La Corte Costituzionale ha rinnovato la raccomandazione al legislatore perché provveda al più presto ad una regolamentazione più puntuale della materia
Con la recentissima pubblicazione della sentenza n. 135, la Corte Costituzionale ha stabilito che i requisiti per l’accesso al suicidio assistito debbano continuare ad essere quelli stabiliti dalla precedente sentenza n. 242/2019, ovvero (a) l’irreversibilità della patologia, (b) la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, (d) la capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli. Tali requisiti dovranno essere accertati, di caso in caso, dal servizio sanitario nazionale, mediante le modalità procedurali stabilite in quella sentenza. Permane valida, quindi, anche la condizione della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, requisito da intendere correttamente in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza.
La Corte costituzionale, inoltre, ha rinnovato la raccomandazione al legislatore perché provveda al più presto ad una regolamentazione più puntuale della materia, individuando i giusti equilibri di bilanciamento tra i diversi valori in gioco.
Primo fra tutti, il riconoscimento della inalienabile dignità di ogni vita umana, indipendentemente dalle condizioni in cui essa si svolge. La persona, infatti, anche se gravemente malata, o segnata da altre importanti “fragilità”, non perde il suo valore intrinseco, mantenendo intatto il suo diritto fondamentale alla tutela della vita e alla cura della salute.
Tale dignità, che è valore radicale fondato sulla stessa natura umana, proprio per questa ragione rimane integra e immutabile lungo tutta la nostra esistenza, senza variare in conseguenza alle diverse circostanze che la vita stessa ci fa sperimentare. Non esiste, infatti, una condizione di vita – qualunque ne sia la causa – in cui un essere umano possa cambiare la sua natura, diventando in qualche modo “più o meno umano” e, quindi, “più o meno ricco in dignità (valore)”. Ogni essere umano è e sarà sempre una persona, la cui dignità intrinseca esige di essere riconosciuta, tutelata e promossa, in ogni fase della sua esistenza e, in modo speciale, quando essa attraversa circostanze di difficoltà, fragilità e sofferenza.
Tale valore primario illumina ed orienta l’altro bene in gioco, quello del diritto personale all’autodeterminazione. L’esercizio responsabile della nostra libertà, infatti, anche nel disporre della propria corporeità, dovrebbe tenere ben in conto il valore “oggettivo” della vita umana, pur declinandolo nella valutazione soggettiva della propria storia personale.
In tale ambito, certamente rientra anche la scelta libera e informata di sottoporsi o non sottoporsi ai trattamenti terapeutici, inclusi quelli “salvavita”, proposti dai caregivers responsabili del caso clinico, in base al principio di proporzionalità terapeutica.
A parere di chi scrive, sarebbe tuttavia paradossale giungere ad interpretare come atto di “autentica” libertà di autodeterminazione l’eventuale scelta di azioni orientate a provocare intenzionalmente la propria morte: si tratterebbe di una libertà fasulla, che finisce per bruciare le proprie stesse radici impedendo alla persona che la esercita persino di esistere. Per “essere liberi”, bisogna anzitutto “vivere”.
La sentenza n. 135 della Consulta, poi, conclude il suo ragionamento rinnovando lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242/2019, affinché, “sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza”. Non può infatti esserci autentica libertà di scelta nella gestione della propria salute se la persona malata e sofferente non ha a disposizione concrete alternative terapeutiche o curative, che possano risolvere o rendere sopportabili le sue sofferenze.
Al di là del ragionamento tecnico-giuridico ivi espresso, questa sentenza della Corte Costituzionale rappresenta dunque una preziosa occasione per rimettere a fuoco alcuni pilastri valoriali di riferimento, utili ad orientare ogni ulteriore sviluppo regolativo in materia.