Le ferie per una diversa narrazione?
Se non verrà tormentata da una qualsivoglia eventualità – sempre possibile con i conflitti in corso –, la politica affronta il viadotto (non è un ponte, perché ha molte arcate!) di ferragosto con l’ambizione di staccare la spina, di rilassarsi e di rimandare a settembre tutti gli impegni e tutti i chiarimenti. Succede così da sempre, forse da un paio di decenni (unica eccezione: la campagna elettorale, in pieno agosto 2022, per le elezioni politiche a settembre), quando i politici sciamano sotto gli ombrelloni o sui percorsi di montagna. Palazzo Madama e Palazzo Montecitorio sono deserti, i palazzi del governo non possono essere proprio deserti ma è vero che il motore gira al regime minimo necessario, il caldo si fa sentire e ha, quanto meno, il merito di sgelare le tensioni, a voce e non, dietro le quali, spesso e volentieri, c’è un vuoto di pensiero, una vera e propria assenza di idee, di visioni. Sono in calendario gli appuntamenti estivi consueti – come il Meeting di Rimini – ma il messaggio vero è: “se ne riparla a settembre”. Un avviso breve e chiaro. Se non fosse per l’aleggiare di un punto interrogativo incombente. Dopo due anni di attività di governo, la sfida del cambiamento, stabilita e sostenuta da Giorgia Meloni, è tuttora solida oppure si è persa pian piano per strada fra impulsive decisioni, dissapori interni alla maggioranza, incertezze, chiusure a riccio, faticosi rapporti con la stampa, massicci ricorsi a interviste di opinionisti amici e denuncia opprimente della sinistra “che cerca di delegittimarci”? Stando agli analisti e ai sondaggisti, il consenso elettorale c’è e perdura ma è come la classica corsa del mezzofondista che, arrivato all’ultimo giro, perde i passi, fa fatica a slanciarsi e rischia di essere sorpassato dagli avversari. Al viadotto di Ferragosto, in effetti, l’esecutivo formato da Fratelli d’Italia, dalla Lega e da Forza Italia – con il contributo esterno di Noi con l’Italia, Coraggio Italia e Unione di Centro – è arrivato con il fiato corto. La narrazione, regolare, frequente e ripetuta, è del tutto costruita sui tanti primati del nostro Paese e sulle forti difficoltà degli altri paesi europei in termini di crescita, in modo particolare la Germania e la Francia. Ma le svariate e persistenti divergenze rispetto alla media europea non vengono mai esternate e il piano nazionale di ripresa e resilienza è in ritardo per quanto concerne la realizzazione della spesa. Dopo due anni di governo, una comunicazione costruita sul “siamo belli, buoni e bravi” non può sopportare il contatto con una realtà quanto meno più problematica e più preoccupante. Tanto è vero che le stesse lobby, balneari e tassisti in primis, risolutamente spalleggiate fino a ieri nella battaglia contro la direttiva Bolkestein, la libera concorrenza e l’Unione Europea, ora avversano il governo amico perché non batte i pugni sui tavoli dell’Unione europea. Ma, forse, là avrebbe influito in misura maggiore se non avesse deciso di votare contro la riconferma di Ursula von der Leyen al comando della Commissione europea. Né le rassicurazioni, molto forzate nei modi e nelle espressioni, a partire da quelle del vice presidente del Consiglio dei ministri e segretario della Lega Matteo Salvini, amico di Le Pen e Orban – ‘siamo diversi, ma questa maggioranza andrà avanti fino al 2027’ –, cambiano la sostanza. Giorgia Meloni soffre la competizione da destra del tandem Salvini-Vannacci e, dal centro, dell’altro vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, che, sotto la spinta anche della famiglia Berlusconi, preoccupata per la deriva a destra, tesse un’altra tela. E che ci stiamo a fare al Governo se non risolviamo l’emergenza carceri, si è chiesto, per esempio, il forzista vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè? I problemi interni non sono una ideazione satanica della sinistra, come conferma anche il caso Rai: le nomine al vertice sono state rinviate perché mancava l’accordo. All’opposto, si è scelto – per volere del ministro Giorgetti – di sostituire il Ragioniere Generale dello Stato Biagio Mazzotta e di nominare Daria Perrotta, responsabile dell’ufficio legislativo del Ministero dell’economia e delle finanze. Nata nel 1977, percorso di studi perfetto, esperienza maturata sul campo in Parlamento, alla Corte dei Conti e alla Presidenza del Consiglio dei ministri, dove ha lavorato nel governo Renzi e, infine, con Giorgetti quando divenne sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Conte 1 e poi ministro dello sviluppo economico con Draghi, è la prima volta che una donna va alla guida di un braccio strategico dello Stato. ‘È una decisione sbagliata’, ha strillato l’opposizione perché Perrotta non proviene dalla stessa Ragioneria o da una authority superiore come Banca d’Italia. “Se la Ragioniera non arriva da Banca d’Italia ho compiuto un peccato mortale? Okay, ho peccato”, ha replicato Giorgetti. Ecco come aggiornare la narrazione della maggioranza: cambiare conduttore si può e si deve se le scelte si incardinano su competenze provatissime e non sono ispirate dalla appartenenza. Del resto, anche il senatore del Partito democratico Filippo Sensi, alla Presidenza del Consiglio prima con Renzi e, poi con Gentiloni, ha detto di Perrotta di conoscere “personalmente la competenza, la solidità e la conoscenza al laser del bilancio dello Stato”. Proprio quello di cui ha bisogno il complesso apparato dello Stato ma, più ancora, tutto il nostro Paese.