È un barcone o uno yacht?
Le aperture delle prime pagine dei quotidiani e i sommari dei titoli dei telegiornali di questi giorni sono polarizzati dall’inabissamento del veliero avvenuto al largo di Porticello, nel quale sono annegate sette persone. La causa che ha provocato attenzione e sconcerto è legata alla tromba marina che ha rovesciato e affondato il natante. Un’eccellenza, un panfilo a vela, da diporto, di cinquantasei metri e dotato di un albero di settantacinque metri, battente bandiera del paradiso fiscale dell’Isola di Man. Non era dunque una carretta del mare ma una super imbarcazione, che si è però dimostrata fragile di fronte alla forza improvvisa della natura. Fra i sette deceduti nel disastro, il tycoon Mike Lynch e il banchiere Jonathan Bloomer. Ma l’attenzione dei giornali e dei notiziari televisivi si è concentrata su due elementi di questo naufragio: la frequenza delle trombe d’aria e delle trombe marine e ciò che le provoca da un lato e, dall’altro, il fatto che fra le vittime vi siano personaggi dell’alta finanza. Forse si parlerà ancora a lungo di questa vicenda. Ma parliamo molto poco del fatto che il Mediterraneo sia una sconfinata tomba in cui tutti i giorni annegano migliaia di uomini e donne, adulti e giovanissimi, che, non per passatempo ma per bisogno, cercano di attraversarlo per venire in Europa e che non sono degni della nostra attenzione e neppure, spesso, di essere nominati. È l’effetto dell’abitudine alla normalità di quelle morti perché le vite umane non sono poi tutte uguali, nonostante i proclami di civiltà dei diritti umani di cui gran parte degli occidentali, ma, soprattutto, degli europei, pretendono di essere la culla. È chiara e visibile l’asimmetria fra il naufragio dei giorni scorsi e la catastrofe quotidiana delle persone migranti sulle rotte del Mediterraneo. Un’asimmetria sia nella copertura da parte dei mezzi di informazione, ma anche per le operazioni di soccorso e le tecnologie messe in azione per la ricerca e il recupero. E allora, perché una attenzione dissimile di fronte alle due diverse tragedie del mare? E perché il dramma di migliaia di persone che fuggono da guerre, povertà, instabilità non ha la stessa rilevanza? E se sono stati e sono seguiti con una attenzione mediatica diversa, dipende da meccanismi che hanno a che fare con la attitudine di un fatto a essere trasformato in notizia di elevato interesse? È forse più facile riconoscersi in turisti occidentali anziché in profughi che fuggono da fame e da conflitti? Si sfuggono le tragedie dei migranti perché si proiettano in loro le nostre paure, quelle di una società e di forze che sentiamo di non riuscire più a controllare? La paura inconscia è quella del contagio con la fame, con la povertà, con il dolore, con il lutto? Ciò che colpisce è la lontananza fra l’empatia verso i turisti del veliero e il trattamento verso i migranti che attraversano il mar Mediterraneo da parte dell’informazione, della politica e di tutta la società civile. Certo, si possono cercare e trovare alcune differenze per giustificare le difformità di trattamento. I naufraghi del panfilo non avevano bisogno di mezzi di fortuna per raggiungere le coste siciliane, non sapevano di affrontare un rischio tremendo, né tanto meno avevano intenzione di presentare qualche domanda di asilo, ammesso che questa sia un peccato. Non graveranno sul precario sistema di accoglienza e non chiederanno alcun sussidio allo Stato italiano, a parte l’immediato soccorso. Resta il fatto, scrisse Giorgio La Pira nell’ultima lettera al suo amico di sempre, papa Paolo VI. E resta il fatto è che, nel 2023, nel mar Mediterraneo, hanno perso la vita più di tremila persone. Questo è il numero soltanto dei decessi accertati perché molti altri avvengono nell’oscurità e nel silenzio di tutti. Resta il fatto che questo dato, non solo chiama in causa tanti aspetti di responsabilità, ma solleva, innanzitutto e soprattutto, un problema di coscienza e di principi, quelli sui quali è fiorita, dopo il secondo conflitto mondiale, l’idea di una Europa unita, fra i quali la salvaguardia della vita umana. Resta il fatto che, nel nostro tempo, l’Unione europea reagisce di fronte a questa carneficina come se i naufragi fossero effetto collaterale del fenomeno migratorio. Resta il fatto che si festeggia la riduzione del numero degli sbarchi come una squadra di pulcini che ha fatto rete sul campetto parrocchiale. Ma la riduzione degli sbarchi può avere tante cause. Sono calate le partenze dalla Tunisia, anche per effetto del memorandum siglato dall’Italia con il Paese del Maghreb. È un accordo che lascia aperto un altro problema di coscienza: è stato dimostrato che centinaia di migranti respinti dalla Tunisia vengano deportati nel deserto libico e abbandonati senza acqua e senza cibo. Tutto ciò perché niente è cambiato in Libia: nonostante le rinnovate denunce dell’Onu, sono sempre aperti i campi di concentramento nei quali sono rinchiusi i migranti respinti in mare nel corso dei tragitti verso l’Europa. Nelle intese che hanno esternalizzato le frontiere dell’UE non è regolata la imposizione di interventi per porre fine a pratiche criminali pure verso donne e bambini. E così resta il fatto che si assiste a tragedie che chiamano in causa le coscienze: non è accettabile, non tutto è accettabile in nome della riduzione degli sbarchi. È una questione di umanità, di solidarietà, di comprensione e di compassione verso gli altri esseri umani.