Il conformismo della guerra
Si prova un senso di repulsione a pensarlo e un senso di repulsione si prova a scriverlo. Ma è una realtà e non si può contestare: si deve riconoscere, purtroppo, che la strategia interventista e bellicista di Netanyahu – e della sua compagine di governo ultraconservatore, ultranazionalista e ultraortodosso – sta sopportando tutte le prove del tempo. Massacrando decine – si discute se siano tre o quattro – di migliaia di civili palestinesi, le forze di difesa israeliane (questo è l’eufemismo usato per indicare le forze armate) hanno annientato la striscia di Gaza, riducendola in un enorme cumulo di macerie e, di fatto, rioccupandola con forza e violenza, e a mano armata. Una volta rasa al suolo la Striscia, Netanyahu ha rivolto le sue attenzioni alla parte settentrionale, al Libano, cioè dove hanno sede le milizie di Hezbollah, la cui forza militare è tale da essere reputata non solo più potente dell’esercito regolare libanese ma della maggior parte delle forze armate arabe al mondo. Approfittando della prevalenza aerea, Israele ha sferrato delle incursioni, sempre più micidiali, fino a quelle recentissime, definite “preventive” rispetto a una offensiva delle milizie filo-iraniane, che si è materializzata lo stesso nel lancio di centinaia di razzi. Una tattica, quella dell’attacco preventivo, che fa tornare alla memoria una vignetta pacifista degli anni Sessanta. Un generale diceva: “Attacchiamo per difenderci … se mai a quello viene l’idea di difendersi”. Nel contempo, consapevole che un vero attacco a Israele provocherebbe l’intervento degli Stati Uniti, l’Iran ha dovuto metabolizzare l’assassinio mirato del leader palestinese Ismail Haniyeh e rinviare, a data da destinarsi, quella vendetta così tanto sbandierata a parole. Tutto questo è reso possibile, anzitutto, dall’appoggio internazionale, di quell’internazionale che più conta, di cui gode lo Stato di Israele. Gli Stati Uniti continuano a mandare armamenti e finanziamenti e, come per l’Iran, a proiettare l’ombra minacciosa della loro potenza ogni qual volta la tensione sale oltre il livello di guardia. L’amministrazione Biden è intervenuta di solito per consigliare moderazione e anima le trattative per una tregua a Gaza. Ma dall’offensiva terroristica di Hamas a Israele del 7 ottobre del 2023 a oggi, i consigli del presidente degli Stati Uniti e le molte missioni in quell’area del segretario di Stato Antony Blinken hanno prodotto poco o nulla, dal punto di vista dello scontro armato. E le campagne elettorali di Trump e di Kamala Harris fanno presumere che poco cambierà in avvenire. L’Unione Europea, al momento “in tutt’altre faccende affaccendata”, non fiata, non parla. E, delle due, o l’una o l’altra: o acconsente oppure subisce. Questo non significa discolpare Hamas o l’Iran o i loro vassalli Houthi o Hezbollah, con le loro politiche estremistiche, le loro strategie terroristiche e la quasi assoluta incapacità di concepire una alternativa che non abbia alla base l’uso della forza. Vuol dire soltanto far notare che nulla è stato fatto, dall’ Occidente, per portarsi alla radice del problema, ossia la sorte, il destino dei palestinesi, e cercare seriamente di risolverlo. È così: per molto tempo sia gli Stati Uniti sia l’Europa hanno assistito inerti agli sforzi di Netanyahu e dei suoi favoreggiatori per rendere impossibile l’unica soluzione che, a parole, tutti caldeggiano, ossia quella “due popoli, due stati”, incoraggiando con i fatti quella follia politica. Che non solo ha scaraventato i palestinesi fra le braccia di Hamas e il Medio Oriente in una situazione di continua incertezza, ma ha ormai, in pratica, costretto tutto il mondo a conformarsi alla convinzione che il conflitto sia l’unico stratagemma per delimitare la questione. Questa constatazione può spingere alla disperazione. Già, perché nella storia molto tormentata del conflitto fra israeliani e palestinesi, fra le troppe incerte e complicate, una cosa è sicura e facile da capire: la violenza non ha mai, mai, mai prodotto i risultati desiderati. Non il tentativo di pulizia etnica che ha accompagnato la fondazione dello stato di Israele, non le guerre fra gli stati arabi e Israele, non il terrorismo palestinese (ricordate Settembre Nero, la strage di Monaco, i fedayyin, l’Achille Lauro?), non la oppressione e il colonialismo israeliano, non lo stragismo di Hamas e nemmeno il suprematismo, l’autoritarismo e il dispotismo dell’ultimo esecutivo – in tanti sperano sia davvero l’ultimo – comandato da Netanyahu. Il problema è lì, è sempre lo stesso ed è sempre lì: dinanzi ai troppi insediamenti dei coloni israeliani, cosa fare dei palestinesi? L’unica differenza rispetto al 1948 è che tutto il contesto, l’intero scenario è più violento, crudele e insensato. Tutto ciò dovrebbe illuminare chi ha il potere di decidere. Basta esaminare la posizione di Biden che ha detto parole di commiserazione per la popolazione di Gaza, ma senza avere il coraggio di assumere una decisione, pure simbolica, anche solo tre pallottole in meno per le forze di difesa israeliane. E siccome fabbricare armamenti e inviare le persone a morire non è poi così difficile, non ci si può aspettare cambiamenti nel prossimo futuro. E viene da chiedersi se un redivivo generale von Clausewitz attesterebbe ancora che “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”, dinanzi a tutto ciò? Forse no. Sembra proprio che, per chi ha solo la forza delle armi, l’unica via di uscita sia la guerra? E oltre la forza delle armi? Il niente, il nulla, il vuoto assoluto.