Ecclesia

Cristo, speranza nostra: il messaggio dell’arcivescovo Ciro Miniero per l’inizio dell’anno pastorale

15 Set 2024

Cari fratelli e sorelle,

nel giorno in cui viene imposto dal Nunzio Apostolico sulle mie spalle il pallio, consegnatomi dal Santo Padre Francesco lo scorso 29 giugno, desidero raggiungervi con un messaggio che avvii il nuovo anno pastorale e che tracci alcuni tratti salienti dei nostri impegni per gli anni venturi.

Colgo un grappolo di spunti per indirizzare il nostro cammino diocesano proprio da questa circostanza provvidenziale.

Il pallio esprime visivamente la comunione con il vescovo di Roma, che presiede a tutte le altre chiese nella carità; è un invito a camminare insieme con le chiese sorelle di Oria e di Castellaneta. Esso è un richiamo all’amicizia e al riconoscersi unico gregge del Signore.

Voglio toccare questa lana come intrecciata dagli stessi fili della rete del Regno di Dio.  Sono intrecci sorgente di unità. È una rete di maglie strette per accogliere il più possibile tutti i figli di Dio raggiunti dalla Buona Notizia.

«Io sono il buon pastore e conosco le mie pecore» (Gv 10,10). Gesù si dichiara a noi, suo popolo, come buono, manifestando le sue intenzioni di bene e di protezione. È un pastore che dona la sua vita per la salute del suo gregge e la sacrifica per esso, come padre, medico, custode e modello. Conosce la nostra pesantezza, i nostri limiti, i nostri peccati, eppure non fugge da noi. Anzi, la sua chiamata ci rende degni della casa ecclesiale invitandoci a riconoscere la sua voce, a passare attraverso di Lui: «io sono la porta» (Gv10,7) della misericordia e della conversione.

Egli si differenzia dagli altri pastori perché non è un estraneo, non è un ladro, non è un mercenario.

Dalla premura di Cristo Buon Pastore vorrei che tutta la comunità diocesana intensifichi il cammino che già compie da tempo con impegno, spendendo le migliori energie. Avendo particolarmente a cuore due ambiti:

  • L’evangelizzazione come urgenza ed esigenza della Chiesa (non siamo Chiesa se non evangelizziamo!) privilegiando l’attenzione al mondo delle povertà confermando il nostro impegno nella cura della casa comune (non dobbiamo dimenticare ciò che la Laudato Si’ e la Laudate Deum devono significare per la nostra terra);
  • la ricchezza del dinamismo sinodale attingendo alle radici della nostra speranza nell’occasione propizia del Giubileo del 2025.
  1. la professione di fede all’ inizio di un nuovo anno pastorale.

Dobbiamo verificare la nostra conoscenza della voce del Pastore, bisogna riconoscerla nitida, chiara e distinta, in mezzo a tante altre voci, perché prima di pianificare ed attuare un qualsiasi progetto pastorale occorre rinnovare il nostro impegno a seguirlo. Nella vita del credente ogni entusiasmo fiaccato, ogni fatica soverchiante, ogni scoraggiamento e paura, hanno una sola ragione scatenante: l’aver smesso di ascoltare la voce del Maestro, l’essersi privati della Sua compagnia, l’averlo voluto precedere sulla via di Gerusalemme cominciando a pensare secondo gli uomini e non secondo Dio (cfr. Mt 16).

Guardo ai numerosi segni di bene che sono presenti nella nostra arcidiocesi: la vitalità delle parrocchie, il tesoro della devozione popolare, gli sterminati talenti che riscontriamo nelle nostre comunità, la grande generosità e accoglienza della nostra gente. 

Davanti a questa messe biondeggiante, fiduciosamente voglio aprire quest’anno pastorale con una domanda semplice e diretta: «Chiesa di Taranto, come vuoi continuare a seguire Gesù Cristo? Vuoi essere sua discepola guardando con speranza in avanti?». È solo dalla nostra risposta che dipendono la bontà e i frutti del nostro cammino fin dai primi passi.

Quando si mette mano ad un progetto, si indicano obiettivi, risorse, strategie, cronoprogrammi, verifiche. Per noi inizialmente non può essere così. Ogni cominciamento deve essere caratterizzato dalla nostra professione di fede. Mi viene in mente la folla del capitolo sesto di San Giovanni che, sfamata dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci operata prodigiosamente dal Signore, rimane fissa sul miracolo spettacolare ed incapace di coglierne il segno autentico. Vorrei che pensaste per qualche istante a quella folla che insegue Gesù e i suoi discepoli dopo il miracolo. Gesù fugge da qualsiasi fraintendimento mondano: «In realtà voi mi cercate non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato quel pane e vi siete saziati» (Gv 6,26). Anche noi possiamo essere quella folla che segue Gesù per un fraintendimento, anche noi possiamo affaticarci e lavorare invano per cose che il Maestro non ci ha mai chiesto. Probabilmente anche noi ci adoperiamo troppo a lungo per cose che periscono.  Sembra quasi di intuire il tono di Gesù che dice: «Quella stessa fatica che avete impiegato in massa per venire fin qui, utilizzatela per le cose che vi donano la vita eterna» (cfr. Gv 6,27). Stupisce la prontezza con la quale quel popolo, eccitato dall’idea di un nuovo e potente re, risponde: «Qual è l’opera che ci dai da compiere?» (Gv 6,28). E il Signore: «L’opera di Dio è questa: che crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). L’opera quindi è innanzitutto professare la nostra fede. Verrebbe da dire: «l’opera è tutta qui?». In realtà non si tratta di aderire semplicemente ad una convinzione intellettuale, ma è un’adesione continua, un lavoro quotidiano, quello di tendere con tutte le proprie forze a professare una fede certa nel Cristo vivo, mandato dal Padre per amore del mondo a donarci la vita. Il nostro sguardo, le nostre energie, il nostro essere devono orientarsi nell’unica direzione di Cristo. Non abbiamo tante vie, ma solo la Via. Non siamo sballottati dalle opinioni più o meno accettabili od opinabili, ma abbiamo la Verità. Non dobbiamo cercare un senso alle nostre vite perché abbiamo in noi la Vita. Il nostro battesimo, dono per chi professa la fede in Cristo, è sinfonia al contempo della chiamata, della risposta generosa e della sequela. Detto in semplicità assoluta: «Crediamo fino in fondo in ciò che facciamo e per chi lo realizziamo?». Il nostro «sì», il nostro «credo Signore, amen!» equivalgono alla presa in carico delle istanze del Regno, alla nostra responsabilità ecclesiale? Ripartiamo da qui.

  1. Il nostro è un discepolato missionario

Undici anni fa papa Francesco consegnava alla Chiesa un documento di straordinaria attualità, l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Questa esortazione, accolta con entusiasmo inedito anche per la facilità e l’immediatezza con la quale il Santo Padre si è rivolto al popolo dei credenti, va ripresa in mano e approfondita. Essa contiene in nuce profeticamente gran parte del magistero successivo, rimane un valido strumento di verifica della lenta attuazione del Concilio Vaticano II e, con disarmante concretezza il Papa indica quali siano i punti deboli o, comunque sia, insufficienti del nostro agire ecclesiale. Nell’Evangelii Gaudium egli offre l’intonazione per affrontare le sfide epocali a cui la Chiesa deve portare il suo annuncio di speranza, ovvero la cura della casa comune (Laudato si’), la fraternità e l’amicizia sociale fra i popoli (Fratelli tutti). Vale la pena riprendere il documento perché la sua assimilazione non si riduca alla sbrigativa acquisizione di alcuni seppur belli slogan quali “chiesa in uscita” o “conversione pastorale”, ma all’assimilazione di veri e propri criteri di evangelizzazione.

Tornando all’immagine del Buon Pastore che ci chiama e alle pecore che riconoscono la sua voce, non posso che riportare un’espressione cara a Papa Francesco che nell’Evangelium Gaudium viene ripetuta nove volte: “discepolato missionario”.

Così il Papa: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione».[1] «In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr. Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati»[2]

Vorrei quindi che cominciassimo a superare la categoria con la quale misuriamo i vicini e i lontani dalla comunità. Spesso non sono le persone ad essere lontane da noi, ma la Chiesa è lontana da tanti. Intrappolati da meccanismi di autopreservazione e talvolta di autoreferenzialità, ci ritroviamo ad essere incapaci di dialogare con il mondo perché anacronisti o più semplicemente inesperti di umanità. Questo non significa ricorrere solo a nuovi modelli comunicativi o a renderci in qualche modo più appetibili attraverso le più bizzarre manifestazioni di presunta vicinanza.

Nel discorso che ho offerto al termine dell’ultima processione del Corpus Domini ho tenuto a dire che talvolta siamo spaventati dai progressi scientifici e tecnologici che sembrano impadronirsi di noi come ad esempio l’intelligenza artificiale, invece crediamo di avere ancora qualcosa da dire e dare al mondo, qualcosa che altri non possono dare ovvero l’amore di Dio, Dio stesso, in questo pezzo di pane che è capace di renderci creature nuove, veri uomini e donne a immagine e somiglianza di Dio.

Le grandi domande della gente rimangono inevase e le manifestazioni dell’assenza di Dio dalla nostra società sono continue: la violenza inaudita e gratuita specie nei più giovani è un chiaro sintomo di come non sia avvenuto l’incontro con Cristo. Efficientismo, velocità, iperconnessione, progresso, benessere economico, non daranno mai la vera bellezza di cui ogni uomo e ogni donna vogliono saziarsi. La Chiesa passa di moda e non è attuale quando non è sé stessa, quando insegue essa stessa le mode. È attuale quando evangelizza ogni ambito della vita, quando trova e si lascia trovare nei luoghi della sofferenza e dell’amore, quando vive del Risorto sempre contemporaneo ad ogni uomo e ad ogni tempo. Tocca a noi, sull’esempio di Gesù, fare incontrare i nostri cortei con la vita reale della gente, così come il seguito del Signore si lasciò incrociare dall’accompagnamento funebre del figlio della vedova di Nain (cfr. Lc 7,1-17). Dobbiamo intercettare lo sguardo dei tanti Zaccheo (cfr. Lc19, 1-10), appollaiati e curiosi sugli alberi per non essere disturbati, ma che sono desiderosi di cambiare vita. Forti di una parola liberante, dobbiamo approssimarci ai Levi rannicchiati sul banco delle imposte (cfr. Lc 5,27-35), schiavizzati dal loro stesso lavoro, ma soprattutto dobbiamo collaborare con Dio per liberare tanti nostri fratelli e sorelle dalla pesantezza del peccato, per far incontrare loro la gioia di essere salvati.

Siamo rassicurati da un’esperienza evangelizzatrice della Chiesa nei secoli. La storia ci racconta di importanti passi in avanti della civiltà dell’amore di Cristo come anche del vento perenne della mondanizzazione. Non dobbiamo scoraggiarci, ma al contempo non possiamo ignorare la perdita di significato dei nostri valori e della continua marginalizzazione specie nel nostro Occidente delle ragioni del Vangelo. Il compito del Pastore e dell’intera comunità è innanzitutto annunciare Cristo e la sua Parola e aiutare la comunità a coniugare vita e fede. La credibilità e quindi l’autenticità della nostra azione evangelizzatrice è far sentire lo sguardo benedicente e provvidente di Cristo sui poveri, conoscendo e amando tutti gli ambiti di povertà e fragilità. Il posto della Chiesa è su ogni calvario, in cui dobbiamo essere presenti per missione e per salvezza. Se è vero com’è vero che tutte le volte che facciamo qualcosa ad uno dei nostri fratelli più piccoli lo facciamo direttamente a Gesù (cfr. Mt 25,31-35), vuol dire che Lui ci salva, ci annuncia la buona novella attraverso i poveri, i sofferenti, gli ultimi. I poveri ci evangelizzano nel mentre ci prendiamo cura di loro. Riconosciamo la fecondità reciproca dell’azione evangelizzatrice. 

Chiedo ai presbiteri, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, agli operatori pastorali, e a tutta la Comunità in ogni sua componente, di impegnare le migliori energie per raggiungere questa finalità. 

In questi anni la parola della Chiesa tarantina è stata particolarmente attesa e puntuale circa le grandi questioni ambientali e sociali e certo continuerà ad esserlo, cercando non solo di stimolare le coscienze sulle annose questioni che sembrano mai risolversi, ma soprattutto cercando di evangelizzare questi ambiti attraverso l’azione dei credenti attenti al mondo delle nostre povertà, seguendo l’invito pressante di Papa Francesco. Urge una nuova riflessione che generi fatti concreti circa la conoscenza delle povertà nella nostra città e nella nostra diocesi. Credo che l’apporto della Chiesa non possa essere esclusivo ma è necessario e cogente.

  1. Sinodalità. Le strutture ecclesiali quali laboratori di FRANCHEZZAe corresponsabilità

La grande riflessione sulla sinodalità nella Chiesa è iniziata quando eravamo ancora isolati dalla pandemia. Il Papa ha voluto cominciare questo processo proprio nel momento di grande vulnerabilità e isolamento anche delle comunità ecclesiali. Abbiamo sentito la fatica di incontrarci e di porci delle domande sul nostro essere vera famiglia di Dio. Questa è la fase in cui dobbiamo prendere coscienza e carico dello stato di salute della nostra vera comunione. Credo di non sbagliare quando dico che occorre fare un bagno di umiltà e dare nuova linfa agli organismi di partecipazione ecclesiale nella prospettiva della evangelizzazione. I consigli pastorali, a più livelli, devono essere espressione autentica di una Chiesa che ama il mondo come Gesù. Gli organismi non siano la toppa, l’imbellettamento, l’atto dovuto o peggio ancora la stampella sicura di discutibili leadership, ma laboratori di corresponsabilità e coraggio. Già comincia a scarseggiare nelle nostre parrocchie la rendita della partecipazione popolare dovuta alla grande tradizione di fede. Nelle giovani famiglie è in discussione anche la fino ad ora radicata convinzione di far partecipare i bambini e i ragazzi ai percorsi dell’iniziazione cristiana. È chiaro come la frequenza alle messe domenicali sia calata.

La nostra lettura deve essere realista, mai pessimista né catastrofista. Evidentemente lo Spirito ci suggerisce di esplorare nuovi aeropaghi dell’evangelizzazione, ambiti della cultura e della comunicazione, e soprattutto, ambiti dell’umano dove indirizzare la Parola allo sfiduciato. Penso ad una rinnovata e creativa pastorale del lutto, del mondo della malattia, all’accompagnamento delle coppie al matrimonio, delle giovani famiglie con bambini molto piccoli, delle famiglie che vivono situazioni non inizialmente conformi alla vita sacramentale. Anche nella nostra arcidiocesi, va mutando il tessuto sociale e religioso, mostrando un volto multietnico e multiconfessionale, con tutte le fragilità, povertà e sfide.

Mi chiedo e vi chiedo di tenere il cuore sempre aperto a tante emergenze per rispondere e fronteggiarle con l’entusiasmo missionario, che ci porta a prendere in ogni cosa il largo del Vangelo.

Va da sé che nulla di tutto ciò possa essere improvvisato ma deve essere conosciuto e accolto nelle nostre comunità con la sapienza di chi è disponibile a cogliere il kairòs di Dio nelle circostanze della vita. Mentre potremmo essere tentati semplicemente di rimboccarci le maniche nel tentativo di “attrezzare” le nostre comunità alle sfide, dobbiamo invece andare al cuore della questione sinodale. Sicuramente potremo attingere alla ricchezza della riflessione della Chiesa Italiana, maturata nell’itinerario sinodale che si sta vivendo sotto l’azione dello Spirito.

Mi aiuta in quello che voglio esprimere la riflessione di monsignor Benigno Papa, nostro arcivescovo emerito di venerata memoria, che nella sua ultimissima fatica letteraria scrive: «La Chiesa non è un agglomerato di persone, ma una comunità; non è un collettivo anonimo, ma una comunione di persone in una comunità strutturata visibilmente in modo organico. […] è inutile che noi cristiani sogniamo un tessuto della società umana se prima non si rifà il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali. […]La sinodalità della Chiesa, intesa come vita di comunione con Dio e con i fratelli è aperta alla partecipazione di tutti i battezzati alla missione, è uno stile di vita evangelico che rinnova il tessuto cristiano delle nostre comunità».[3]

È bella l’espressione della Conferenza Episcopale Italiana: «La Chiesa si fa missionaria partendo dall’altare delle nostre chiese parrocchiali»[4]. La parrocchia non è l’unica istituzione evangelizzatrice, ma rimane nella sua duttilità e plasticità quella più significativa, indispensabile e sicuramente quella preminente. Le parrocchie sono un invito permanente alla mensa di Dio.

 «La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione»[5].

C’è un dato che ci viene dalla “provocazione sinodale”. Le parrocchie devono rinunciare alla pretesa ormai utopica di essere enti autosufficienti. Il lavoro delle vicarie sarà proprio quello di individuare percorsi vicariali ed interparrocchiali capaci di condividere e di partecipare attività comuni di evangelizzazione.  Non tutte le parrocchie riescono a fornire, ad esempio, percorsi di pastorale giovanile o di catechesi degli adulti. Sono a conoscenza di esperienze virtuose del servizio interparrocchiale delle caritas. Ma non basta. Credo che bisogni attivare anche occasioni interparrocchiali per formare i laici all’annuncio nelle famiglie, nei condomini, nei luoghi di lavoro. Lasciamo che lo Spirito animi le nostre parrocchie imprimendo novità e bellezza. Di fronte alle crisi aziendali si risponde con nuove politiche di gestione delle risorse umane e materiali, con tagli e previsioni di bilancio. Per la Chiesa, non è così. Essa non segue la logica del mondo, ma si lascia guidare dallo Spirito Santo, che è la fonte della sua crescita con la forza dell’Eucaristia, della Parola, della Comunione e della Carità.

Basterebbe, per cominciare a vivere a pieno l’esperienza sinodale, porsi queste domande in programmazione o in verifica di ogni attività: «Lo abbiamo realizzato insieme?», «Abbiamo camminato insieme?», «Insieme a chi?». Camminare insieme è la sostanza della comunità, il significato della sinodalità.  

Dobbiamo vivere e sperimentare la comunione senza isolarci ma traendo forza dall’alto e fra di noi, con umiltà e spirito di servizio. Innanzitutto dobbiamo ricordare che anche Gesù, di fronte ad una messe enorme da mietere e all’acquisita consapevolezza della scarsità degli operai, non è ricorso al reclutamento di nuove professioni nel campo dell’evangelizzazione, ma ha invitato a pregare perché il Padre suscitasse nuove vocazioni. Ed è questo il nostro primo impegno, pregare il Padre perché mandi operai (cfr. Lc 10,2»).

Registro con dolore la chiusura di comunità religiose nella nostra arcidiocesi per assenza di vocazioni e condivido con gli altri vescovi pugliesi l’apprensione per la caduta verticale del numero dei seminaristi nel seminario regionale di Molfetta. Dobbiamo pregare il Padrone della messe!

  1. L’occasione del giubileo.

Pellegrinaggio e speranza sono due parole ricorrenti nella preparazione dell’anno Santo 2025; il pellegrinaggio è metafora di una vita che procede verso una meta che può trasfigurarla, e richiede fiducia, entusiasmo e spirito di sacrificio. Vi sono tratti in cui sperimentare il colloquio cuore a cuore con Dio e tratti in cui godere della gioia dei fratelli, tutti pellegrini, penitenti e festosi. Il pellegrinaggio è un percorso di guarigione interiore che educa l’animo al giusto affiorare della gioia di andare incontro al Signore. È bello cominciare un anno pastorale con l’emozione di intraprendere un bel viaggio che possa trasfigurarci. In questo senso il Giubileo è un’occasione propizia che non deve andare ad affiancare le attività ordinarie delle nostre comunità, ma deve scuoterle, perché abbiamo sempre bisogno di metterci in cammino e di sostenerci gli uni gli altri nelle fatiche.

“Spes non confundit” (Rm 5,5) è l’incipit della bolla di indizione del Giubileo ordinario 2025;  sono parole di San Paolo: «la speranza non delude». La nostra speranza è Cristo e nostro compito è quello di far incontrare la Speranza accendendo le innumerevoli speranze degli uomini. Il papa dice:  «Tutti sperano. Nel  cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni»[6].

Apriremo il Giubileo il 29 dicembre nella nostra cattedrale millenaria e tutto l’anno sarà punteggiato di occasioni di fede anche nelle chiese che la bolla indica come giubilari.

Essenziale sarà per noi vivere con fervore il sacramento della Riconciliazione, facendo di essa lo stile permanente della nostra famiglia ecclesiale. Ai sacerdoti dico che bisogna ritornare nel confessionale, non solo su richiesta dei fedeli, ma bisogna lasciarsi trovare ad accogliere chi ha il cuore ferito. Nella cattedrale e nelle chiese giubilari i vicari foranei si adoperino perché ci sia sempre qualcuno di noi a confessare. Tocca ai presbiteri dispensare a mani larghe la Misericordia di Dio ma non solo. Nel messaggio per la quaresima ho voluto condividere con voi un pensiero che ripropongo:

Penso all’immenso tesoro, oltre che sacramentale, profondamente pedagogico che reca in sé il sacramento della Riconciliazione. Tale sacramento, a partire dai ragazzi, insegna l’importanza di chiedere perdono, di discernere cos’è bene e cos’è male, ci educa ad illuminare correttamente la nostra coscienza, ci allena ai buoni propositi e a come mantenerli, con l’aiuto della Misericordia, che mai si stanca di rimetterci in piedi. L’amicizia della Chiesa, sperimentata nel rapporto con il presbitero, gradualmente, ci insegna che non siamo né schiavi della colpa né del peccato, ma figli amati e benedetti del Padre.

A questo aggiungo, soprattutto per i sacerdoti, di accostarsi al sacramento della penitenza per dimostrare quanto sia importante in un cammino di conversione, e per dare una testimonianza credibile ai fedeli, affinchè possano anche loro celebrarlo con fede e regolarità. A poco servirebbe solo toglierci i fardelli di dosso nell’esperienza sacramentale se non ci sentissimo più in grado di amarci e volerci bene fra di noi. Vivere una vita riconciliata vuol dire lavorare per la comunione presbiterale. A tutti noi sacerdoti capita di alzare lo sguardo durante una concelebrazione e di percepire distanze, interruzioni, malesseri o peggio ancora indifferenza nei nostri rapporti. Dobbiamo ricordare che Dio ci ha resi dispensatori della Grazia per vivere riconciliati. Il Giubileo possa farci riscoprire, al di là della Porta Santa della nostra conversione, del nostro rinnovamento, la freschezza e la gioia della nostra fraternità. Abbandoniamoci alla volontà di bene del Padre e noi per primi lasciamoci sorprendere dalla creatività della sua Misericordia senza limiti!    

  1. Cum Maria evangelizzare

All’inizio di questo anno pastorale, ci affidiamo a Maria, Madre della Speranza; ella che è presente nella storia dell’infanzia di Gesù, è presente accanto ad ogni nostro primo passo.

Ci affidiamo totalmente a Te,

Madre del Verbo, Madre della Parola,

Vergine del «sì» e Madre della fede,

salutata dall’angelo, sei Madre della gioia,

tu sei il modello della Chiesa.

Tu che sei stella della Nuova Evangelizzazione,

aiutaci ad innamorarci del Vangelo

perché possiamo, con la predicazione e il battesimo,

generare a nuova vita tanti fratelli e sorelle.[7]

San Cataldo, nostro patrono, benedica i nostri passi.

Taranto, 15 settembre, XXIV Domenica del Tempo Ordinario, memoria della Beata Vergine Maria Addolorata, del 2024, secondo del mio Episcopato. 

† Ciro Miniero
arcivescovo metropolita di Taranto

 

 

[1] EG 27.

[2]Ibid. 120.

[3]Benigno Luigi Papa, A scuola di sinodalità negli atti degli Apostoli, Ed. Vivere In, Monopoli 2022, 36-37.

[4]Conferenza episcopale Italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n.4 .

[5] EG 28.

[6]Francesco, Spes non Confundit 1.

[7] Preghiera liberamente ispirata alle parole di Benigno Luigi Papa,  op.cit, p 32-33.

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