Incontro alla Santa Maria del Galeso per ricordare il dramma del campo Sant’Andrea
‘Beati gli operatori di pace’ è il titolo dell’incontro che si terrà domenica 22 alle ore 19 nei locali della parrocchia Santa Maria del Galeso e che verterà sull’opera di Paolo VI e di mons. Guglielmo Motolese in favore dei reclusi del campo di concentramento ‘Sant’Andrea’, al quartiere Paolo VI, che si trovava nelle immediate vicinanze dell’attuale centro commerciale.
Dopo i saluti del parroco don Salvatore Magazzino e del rettore dell’Università della terza età di Crispiano, avv. Michele Zuppardi, interverranno: il cav. Antonio Cerbino, presidente della Federazione provinciale di Taranto dell’Associazione nazionale combattenti e reduci; la dott.ssa Tiziana Mappa, responsabile dell’area umanistica dell’Università della terza età di Crispiano; Cosima Marseglia, figlia di Francesco Marseglia, internato nel campo di concentramento. I lavori saranno moderati da Andrea Chioppa, presidente del comitato permanente di studi e ricerche del campo di concentramento dell’Università della terza età di Crispiano. Durante la serata è prevista la testimonianza di ragazzi del clan del gruppo scout ‘Taranto 15’.
L’iniziativa s’inserisce nell’ambito del programma dei festeggiamenti in onore della Madonna della pace.
La storia del campo
”Ogni più piccolo segno d’insofferenza viene punito con giorni di prigionia trascorsi in cellette che un cane disdegnerebbe; è proibito ai familiari di vedere, è inibita ogni possibilità di difesa, perché non viene comunicata loro l’accusa specifica. Sono considerati fuorilegge, pari a gente per cui ogni norma civile è abolita. Tenuti in condizioni igieniche inammissibili, denutriti, molti sono ridotti veri scheletri viventi, la tubercolosi si diffonde paurosamente, il tifo petecchiale ha già mietuto qualche vittima”: così scriveva il 24 marzo del 1946 il quotidiano cittadino La Rinascita a proposito del campo di prigionia ‘Sant’Andrea’.
“In quel campo, di cui il comando alleato deteneva il comando, giunsero a essere internati fino a 10mila prigionieri italiani suddivisi in dieci grandi recinti – racconta il prof. Vittorio De Marco, docente universitario, che alla vicenda ha dedicato un capitolo del suo libro “Taranto – La Chiesa e la Città nel Novecento” (Scorpione Editrice) – Si trattava di italiani in parte catturati dagli alleati in Algeria nelle isole dell’Egeo e in Tunisia, altri ancora erano ex appartenenti alle forze armate nazi-fasciste e soldati italiani provenienti da Creta che formavano la cosiddetta ‘Legione volontari italiani in Grecia’. Un migliaio erano i repubblichini trasferiti dal campo di concentramento di Afragola (in provincia di Napoli). Una particolare categoria era quella cosiddetta dei “recalcitranti”: militari di formazioni SS e di polizia (perlopiù altoatesini bilingue), elementi provenienti da Brigate Nere, Legione Muti, X Flottiglia Mas, paracadutisti della Folgore, giovanissimi delle formazioni al comando del maresciallo Graziani”.
Il prof. De Marco evidenzia il trattamento pessimo riservato ai prigionieri (alcuni dormivano addirittura sulla nuda terra) e le condizioni igieniche penosissime nel campo, riportate in un appunto del Ministero dell’Interno, informato dal prefetto Binna.
All’inizio della vicenda la città mostrò non adeguata sensibilità, ma man mano cominciò a montare lo sdegno, che si trasformò in una grandiosa mobilitazione popolare per dar vita a innumerevoli atti di solidarietà. Tutto ciò non ha mai avuto il meritato riconoscimento, ma si è sempre in tempo per provvedere.
“Tra i prigionieri vi è una grande depressone morale – scriveva a Roma la sezione diocesana della Pontificia Commissione di assistenza – causata dalla scarsa alimentazione, dall’energica sorveglianza inglese, dalla mancata liberazione dopo la discriminazione fatta nei loro riguardi dagli alleati, dall’impossibile contatto dai loro familiari”.
Per migliorare il trattamento dei prigionieri il ministro dell’Interno Romita autorizzò l’anticipazione di un milione di lire sui fondi disponibili per l’assistenza con approntamento di pacchi viveri e il necessario per confezionare il pane, l’alimento che in quel tempo scarseggiava di più.
Il 10 marzo del 1946, dopo ripetute richieste al Comando Alleato, l’arcivescovo mons. Bernardi, sollecitato da mons. Guglielmo Motolese, all’epoca suo delegato arcivescovile, poté entrare nel campo, accompagnato da tre sacerdoti, per incontrare rappresentanze di tutte le sezioni, celebrando messa e impartendo la benedizione pastorale, distribuendo inoltre distribuire generi alimentari caricati su un autocarro. “Successivamente l’arcivescovo sollecitò i parroci, i fedeli, associazioni ed enti vari per la raccolta di viveri – evidenzia il prof. De Marco – ottenendo una massiccia risposta. All’interno del campo quanto donato (oltre ai generi di prima necessità inviati direttamente dal Santo Padre) fu poi trasportato con ben settanta camion. Dal canto suo l’Azione cattolica diocesana effettuò anche due-tre visite settimanali ai detenuti per distribuire pacchi inviati dalle famiglie o confezionati dagli iscritti. Mons. Bernardi si occupò anche dello smistamento della corrispondenza fra i prigionieri e loro familiari”.
Ma tra i prigionieri perdurava il desiderio di libertà
“Dalla metà di febbraio del ’46 – spiega il ricercatore – gli alleati avevano promesso che il Campo di Taranto sarebbe passato sotto il controllo delle autorità italiane, con la conseguente consegna dei colpevoli dei vari reati alla giustizia e il ritorno a casa gli innocenti, ma il provvedimento tardò ad arrivare, fra l’indignazione dei parenti degli internati, di giorno in giorno sempre più forte. La tensione intorno al campo aumentò notevolmente con sparatorie e incidenti, soprattutto quando i familiari tentavano di avvicinarsi ai reticolati”.
Il passaggio del campo ‘Sant’Andrea’ alle autorità italiane fu finalmente annunciato per metà aprile, ma il 9 dello stesso mese ci fu una rivolta fra i prigionieri; la protesta rientrò ma la tensione rimase. “L’11 aprile ci fu infine l’evasione di massa: 3mila prigionieri fuggirono senza violenze e con il tacito consenso delle autorità inglesi – riferisce il prof. De Marco – La maggior parte di loro si diresse verso la città in cerca di mezzi di fortuna per ritornare nelle proprie famiglie. Molti si fermarono nelle caserme dove furono convinti a tornare al campo per attendere il passaggio di consegne alle autorità italiane che avrebbero organizzato il ritorno a casa. La maggior parte si diresse in arcivescovado dove vennero rifocillati”.
“Alla fine di aprile – conclude – nel campo si trovavano ancora tremila internati e solo nei primi di giugno ci fu lo sgombero. La città finalmente poté uscire da quell’incubo e che nel contempo le dette occasione di vivere giornate di grande solidarietà umana e di vero spirito cristiano”.