Venti di guerra

Dal Medioriente all’Ucraina aspettando novembre: prove di saldatura in una guerra mondiale meno “a pezzi”?

foto Ansa-Sir
26 Set 2024

di Giuseppe Casale*

Alla vigilia del duello tv con Harris, Trump ha stupito gli analisti sostenendo il bisogno di ridurre le sanzioni all’Iran e altri regimi critici, per ovviare al boomerang che sta spingendo il Sud globale nelle braccia della Cina cercando alternative al dollaro nel commercio globale. La settimana scorsa, il figlio del Tycoon e Kennedy jr, in un editoriale sul The Hill, hanno espresso l’urgenza di una distensione con la Russia, per interrompere l’esposizione all’ecatombe nucleare.

Ciò può dare la misura delle mosse di chi, paventando simili sviluppi, volge a predisporre una condizione bellica irreversibile per il futuro inquilino della Casa Bianca, chiunque egli sia.

Per Netanyahu si tratta di cercare un rimedio al vicolo cieco in cui si è cacciato con la mattanza di Gaza. Sicché, in assenza della reazione di Hezbollah ai colpi inferti in estate, si è avuta l’ennesima violazione del diritto internazionale (umanitario e di guerra), con le esplosioni dei cercapersone e dei walkie-talkie in Libano e Siria che, a disdoro delle espressioni di ammirazione per la ritrovata “genialità” del Mossad, hanno trasformato in inconsapevoli kamikaze i loro detentori, mietendo vittime anche estranee al partito di massa libanese. Le successive ondate di bombardamenti sul territorio libanese (concomitanti alle azioni in Cisgiordania) rinviano a una prova generale di attacco, inibendo altresì la ripresa dei negoziati con Hamas.

Anche Kiev ambisce a blindare l’impegno Usa. Gli attestati di solidarietà a Tel Aviv dei mesi scorsi si univano alle doglianze per la disparità di trattamento da parte del Pentagono. Ora la strada sembra puntare al collegamento dei fronti, suggerendo a Washington l’utilità di non spacchettare i teatri, investendo sul contributo ucraino nel fiaccare il supporto russo all’Asse della Resistenza antisionista e, più in generale, nel colpire Mosca nei suoi interessi oltreconfine. Già a luglio, i servizi del Gur si erano intestati il merito dell’agguato teso ai wagneriti del Mali da jihadisti e tuareg secessionisti, provocando le rimostranze all’Onu da parte di diversi governi del Sahel. Ma più significative le immagini dei droni esplosi su una base russa in Siria, diffuse dal Kiev Post avvalorando le notizie turche sull’accordo siglato a Idibl tra il Gur e gli islamisti di al-Sham: una mossa che torna a collegare geostrategicamente la vicenda ucraina a quella siriana, aperta nell’ambito dello sforzo contenitivo degli Usa rispetto alle proiezioni marittime russe sulla direttrice dal Mar Nero al Mar Rosso via Mediterraneo.

A dare man forte alla saldatura potrebbe concorrere l’ultima risoluzione con cui il Parlamento Ue auspica nuove sanzioni a Teheran, sospettata di forniture balistiche a Mosca. Al contempo, l’atto sollecita un surplus di armi a Kiev e la rimozione dei vincoli all’uso sul territorio russo. In assenza dell’autorizzazione Usa all’impiego offensivo degli Storm Shadow britannici (implicanti tecnologie statunitensi), il documento corona i buoni uffici di Starmer presso le cancellerie europee: in linea con l’attivismo di Londra nel candidarsi – memore degli antichi interessi per la Crimea – come tutrice dell’atlantizzazione ucraina, avvalorato dalla stessa Nuland, che adesso conferma l’intervento dell’allora premier Johnson per affossare la bozza di Istanbul tra Russia e Ucraina del marzo 2022.

Vero è che la risoluzione non è imperativa, in assenza di una politica comune in esteri e difesa. Ma ribadisce l’indirizzo di una Commissione del tutto gregaria dell’attuale amministrazione Usa, tanto da istituire un commissario per la difesa con incarico inaugurale lituano, al fianco del commissario per l’economia estone e al successore lettone di Borrell: un tris baltico di chiara attitudine verso Mosca nei ruoli chiave per battere la via del riarmo inclusa nella ricetta Draghi.

Vero è anche che l’uso offensivo dei missili  non capovolgerebbe le sorti della guerra, stanti le gittate insufficienti ad attingere gli obiettivi militari più nevralgici. Eppure il messaggio suona a prodromo di una dichiarazione di guerra, giacché gli armamenti in tema richiedono personale militare occidentale, come del resto già vale per quanto viene impiegato entro i confini ucraini. Così anche nelle parole del ministro della difesa di Kiev: una ammissione che vale a divulgare un messaggio in vista di novembre: se indietro non si può andare, tanto vale varcare l’ennesima linea rossa.

Vero è, infine, che il Parlamento Ue non legifera autonomamente, pertanto l’atto non è cogente. Eppure mette in mora i governi più titubanti. Su tutti quello tedesco, cui Washington chiede di andare in avanscoperta (come già con i carri Leopard) concedendo i missili Taurus. Tanto più ora   che nell’Spd si allarga la fronda di chi teme deindustrializzazione e calo di consensi. E quella di chi subisce la lusinga di Putin sul ripristino del NordStream, che alimenta le frizioni di Berlino con Varsavia, memore dell’inaugurazione del Baltic Pipe tra Norvegia e Polonia (cosviluppato dalla polacca Gaz-System) il giorno stesso del sabotaggio, accolto con il tweet di ringraziamento agli Usa dell’europarlamentare e già ministro Sikorski.

Senza grandi aspettative per “Piano per la Vittoria” che Zelensky si accinge a presentare all’Onu, assente la volontà di una tregua a Gaza, novembre si avvicina, in un panorama strategico sempre più opaco alla comprensione di quanti si ritengano di semplici spettatori di vicende lontane.

 

*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense

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