In cerca di un senso
Quella disperata ricerca dei Pink Floyd che non la cantavano per sentito dire
“Segnando i momenti che rendono una giornata triste
sciupi e perdi le ore in una via fuorimano
gironzolando in una parte della tua città
aspettando che qualcuno o qualcosa ti mostri la via”
Quando David Gilmour, storico chitarrista dei Pink Floyd, ha iniziato a suonare “Time” nel primo dei suoi sei concerti romani (dal 28 settembre al 3 ottobre), i commossi applausi che sono venuti giù erano soprattutto per il ricordo di una stagione irripetibile. Il che non vuol dire che la carriera solista del grande chitarrista valga di meno: è semplicemente diversa.
La stagione di “Atom Heart Mother”, “The dark side of the moon” (che ha alcune analogie con “Il Mago di Oz”), “The Wall” è stata lo specchio di un’epoca ma anche una proiezione verso il futuro. Ed è proprio “Time” a parlarci genialmente di quanti si sono messi alla ricerca di qualcosa o di qualcuno nella noia delle periferie o delle grandi città.
Quella disperata domanda di senso i Pink Floyd, e soprattutto Roger Waters, fondatore e bassista fino alla sua clamorosa defezione nel 1985, non la cantavano per sentito dire. L’avevano conosciuta con l’ascesa geniale e la caduta precoce di quello che sarebbe divenuto il “diamante pazzo” di una loro canzone, Syd Barret, creatore di universi inauditi ma preda degli acidi che costrinsero il gruppo ad allontanarlo per sempre. Solo dopo molti anni se lo ritrovarono in sala di incisione, obeso, sopracciglia rasate, calvo, con la busta della spesa in mano: alcuni di loro non lo riconobbero. Ci furono attimi di commozione, un pasto in comune, e poi addio.
E però quel Diamante Pazzo continuò ad attraversare la musica e i testi del suo antico gruppo: “Wish you were here” e “Shine on you Crazy Diamond” sono solo due dei tributi che i Pink Floyd dedicarono a quella meteora che contribuì a costruire il loro mito.
Quel “Splendi, Pazzo Diamante/ sei stato imprigionato dal fuoco incrociato dell’infanzia e della celebrità” la dice lunga su quanto il gruppo inglese abbia rimpianto il genio divorato dall’Lsd e nel contempo abbia elaborato le sue tematiche, che ancora oggi suonano attualissime: la prigionia del successo e quella della droga, la schiavitù del denaro ( espressa in “Money”), la noia del benessere, il crollo degli ideali di “quando la promessa di un nuovo mondo migliore/ ci era spiegata sotto un limpido cielo azzurro” (“Goodbye blue sky”), la percezione che solo uscendo dall’imbalsamazione della celebrità e aprendosi agli altri si potrebbe recuperare l’equilibrio perduto: “Se fossi un uomo buono/ parlerei con te più spesso di quanto non faccia (…) se fossi un uomo buono/ capirei gli spazi tra gli amici” (“If”).
Le convinzioni progressiste soprattutto di Roger Waters non sono riuscite a reggere l’impatto con una dimensione, quella dell’industria musicale, che impone tempi non necessariamente legati a quelli della creatività, e che portò lo stesso Waters a vedere con sospetto le manipolazioni di una folla osannante fatta di migliaia di giovani disposti a tutto pur di una foto, una dedica, una parola con i loro idoli. Situazione che sarà stigmatizzata nel film realizzato da Alan Parker, ispirato al loro disco “The Wall”, con una folla di ammiratori diventati guardie del corpo e squadre d’azione contro le minoranze considerate inferiori.
È come se la precoce scomparsa della figura paterna, esperienza comune a Barret e a Waters, avesse scatenato incubi e fissazioni che sono stati elaborati in alcune canzoni in cui si avverte il ricordo di un’infanzia prima felice e poi improvvisamente negata, come in ”Sorrow”: “Lui è perseguitato dal ricordo di un paradiso perduto/ nella sua gioventù o in un sogno/ non sa essere preciso/ lui è incatenato per sempre ad un mondo che non c’è più”.