Sempre più poveri
I dati sulla povertà contraddicono la narrazione trionfalistica prevalente sull’aumento dell’occupazione
Le statistiche, quelle serie, costituiscono uno strumento indispensabile per l’analisi dei fenomeni sociali. Ma la rappresentazione complessiva che se ne può ricavare dipende dall’uso che se ne fa, dal confronto tra le diverse rilevazioni e dal peso “politico” che si attribuisce alle grandezze misurate dai numeri. I dati più recenti sulla povertà assoluta, per esempio, rivelano che in Italia si è toccato il livello più alto dal 2014, da quando cioè vengono effettuate misurazioni comparabili con quelle attuali. Ma il tema, una volta abolito il reddito di cittadinanza, è praticamente scomparso dai radar.
I dati ci dicono che negli ultimi vent’anni il numero dei poveri assoluti si è praticamente triplicato, passando dagli 1,9 milioni del 2005 ai circa 5,7 milioni del 2023. Rispetto al 2022, il dato percentuale dello scorso anno è sostanzialmente stabile (9,7% dei residenti), ma si registra comunque una crescita di 30 mila individui. Per la povertà relativa (che si misura nel confronto con il reddito medio di un Paese) c’è anche un incremento percentuale, dal 14% al 14,5%. Quasi 6 milioni di poveri assoluti (tecnicamente coloro che sono impossibilitati a raggiungere “uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza”) sono una cifra enorme, a cui non ci si dovrebbe rassegnare, a prescindere da lievi incrementi o diminuzioni di anno in anno. Invece il problema è stato quasi del tutto assente nel pur sovrabbondante dibattito sulla manovra economica. Diciamo “quasi” perché fortunatamente ci sono sempre delle voci, come quelle della Caritas e dell’Alleanza contro la povertà, che fuori dal coro ricordano a tutti anche quello che non fa comodo ascoltare. E lo fanno sulla base non di pregiudizi ideologici o interessi elettorali, ma dell’esperienza sul campo.
Il punto è che i dati sulla povertà contraddicono la narrazione trionfalistica prevalente sull’aumento dell’occupazione. Purtroppo avere un lavoro non basta per evitare la povertà o per uscirne. È il fenomeno del cosiddetto “lavoro povero”, oggetto di infiniti studi e approfondimenti, ma ancora colpevolmente eluso dalla politica. L’armamentario retorico messo in campo per motivare l’eliminazione del reddito di cittadinanza (gli attuali sostituti si stanno rivelando macroscopicamente insufficienti) era proprio basato sull’idea che la povertà si combattesse con il lavoro. Mentre è un problema molto più complesso, sia nelle cause che nei modi in cui si manifesta. La sua incidenza varia per aree geografiche e per situazioni sociali (famiglie numerose e immigrati restano le fasce di popolazione più colpite). E poi di quale lavoro stiamo parlando? L’Ocse ha calcolato che in Italia i salari reali sono diminuiti quasi del 7% rispetto al 2019. L’effetto ottico dell’inflazione, che gonfia i valori nominali, ha oscurato questa dinamica regressiva, in questo come in altri settori (vedi la spesa sanitaria).
Sui possibili rimedi si può e si deve discutere. La mancanza di una misura universale di contrasto ha segnato indubbiamente un passo indietro. Ma la domanda preliminare a cui la politica deve rispondere è se il Paese si possa permettere che una persona su dieci viva in condizione di povertà assoluta. È una questione di umanità e di civiltà, innanzitutto, e anche di tenuta del sistema economico.